Alle stagioni meravigliose di Nanni

“LibéBalestriniAddioAnni70PotereOperaioration” di ieri, ricordandolo, definisce giustamente Nanni Balestrini un “agitateur intellectuel et culturel”. Durante una lunga conversazione avuta con lui il 14 giugno 2012, l’occasione della Mostra Addio Anni 70. Arte a Milano 1969-1980 (31 maggio/2 settembre 2012, Palazzo Reale, Milano) servì da scusa per ripercorrere i suoi primi anni di lavoro, rievocando un’attività tanto poetico-creativa quanto, sempre, cultural-editoriale.

Il testo si sostiene benissimo senza le poche domande che suscitarono il racconto servito da base a un articolo intitolato Le «meravigliose stagioni»: l’attività editoriale di Balestrini negli anni ’60 e ’70 e l’esperienza dell’Ar&a, apparso nel numero monografico della rivista “Resine” curato da Pier Luigi Ferro nel 2012, di cui su AI potete leggere l’editoriale.

 

La parola a Nanni:

 

La mia attività editoriale è incominciata prestissimo grazie a Luciano Anceschi, che era mio professore al Liceo, apprezzò le mie prime poesie, e mi volle ad aiutarlo a fare “il verri” dove fin da subito e per diversi anni sono stato il “ragazzo di bottega”, dando una mano per tutte le cose pratiche.

Poi è entrato nel gruppo un mio coetaneo, Leo Paolazzi alias Antonio Porta, il cui padre aveva una grossa tipografia che stampava rotocalchi come “Gente”, un settimanale piuttosto di destra, e fece una società con Rusconi, la Rusconi e Paolazzi. Leo convinse il padre a fare le Edizioni del Verri, la Biblioteca del Verri. Come molte altre, anche questa è una storia di padri e di figli. Noi avevamo un ufficio vicino a quello del padre di Porta, alla stazione Centrale, e lì abbiamo realizzato i nostri primi libri. Pubblicammo, per esempio, i testi saggistici di Robbe-Grillet (Una via per il romanzo futuro), poi I Novissimi (1961). Io volevo pubblicare Il pasto nudo di Burroughs che allora era uscito solo in edizione clandestina a Parigi per l’Olympia press, ma Rusconi l’ha visto per caso e si è infuriato: oltre che essere comunisti, eravamo anche pornografi! E così si è chiuso tutto.

Durante la guerra, Anceschi era stato insegnante privato di Giangiacomo Feltrinelli e quindi si decise a chiedere a lui di stampare “il verri”, che infatti è passato a Feltrinelli e così anch’io. Alla Feltrinelli c’era una redazione formidabile con Valerio Riva, Enrico Filippini… si pubblicava tutta la nuova narrativa sudamericana, americana, tedesca, si faceva la collana “Materiali” e io mi occupavo soprattutto degli autori italiani. Ricordo bene il lavoro enorme, con il testo che cambiava tutto a ogni giro di bozze, fatto per Fratelli d’Italia di Arbasino, che Bassani non volle seguire. Mi colpì veramente molto, quando entrai alla Feltrinelli, il fatto che Giangiacomo mi dicesse che il compito di una casa editrice era di vendere e fare circolare libri invendibili. Feltrinelli voleva libri che dessero un tono e un prestigio alla sua casa editrice, al di là delle vendite. Oggi non è più così, è l’ufficio commerciale che decide se pubblicare o meno un libro, tutto dipende dall’ufficio marketing. Non parliamo della poesia…esce ancora qualche libro di poesia nella collana gloriosa dello “Specchio” con Riccardi che è molto bravo e con gran fatica riesce a farsi stampare due o tre titoli all’anno. Mentre, noi, allora con il Gruppo 63 riuscimmo a fare dei libri veramente impossibili. Gli anni Sessanta sono stati, per me, straordinari.

[…]

Dato che comunque la stampa ufficiale ci combatteva, nacque, lentamente nel corso di un paio d’anni, il progetto di “Quindici”. Volevamo fare una nostra rivista che in un primo tempo doveva essere finanziata da quattro diversi editori (facemmo una riunione con Einaudi, Bompiani, Feltrinelli e poi c’era Caracciolo che faceva delle edizioni scientifiche), ma infine decidemmo di autogestirci con il solo supporto della pubblicità proveniente da questi editori. La redazione era a Roma, a casa mia, è la rivista è durata due anni, dal 1967 al 1969. Il movimento studentesco si era già fatto sentire nell’autunno 67, con l’occupazione di Palazzo Campana a Torino. I giornali non capivano, erano molto ostili già in quell’epoca, quando non si parlava di violenza e lotta armata ma di rinnovare i piani di studio, l’insegnamento, ecc.; così, abbiamo mandato Filippini a Torino a raccogliere tutti i documenti di palazzo Campana, anche il Manifesto con cui abbiam fatto un inserto a un numero speciale…e siamo stati inondati da documenti e materiali studenteschi da tutte le parti d’Italia: una parte dei collaboratori, i più letterati, come Giuliani o Manganelli, non si sentivano coinvolti direttamente e non apprezzavano. Invece Eco ed io spingevamo. Alla fine, Giuliani che figurava come direttore si dimise e sono andato avanti io con la rivista mentre contemporaneamente cominciavano a nascere le pubblicazioni di “Potere operaio”, “Lotta continua”, i vari organi di stampa del movimento. Allora abbiam deciso di chiudere “Quindici” anche se aveva raggiunto delle cifre di vendita pazzesche… si vendevano 20/25000 copie… ma era finita la sua funzione di raccogliere e ospitare i testi del movimento. Ho poi diretto la rivista “Compagni”, un’iniziativa voluta da Feltrinelli che voleva rifare una rivista con un certo indirizzo politico. Abbiam fatto due numeri, però i gruppi politici stavano già facendo le loro riviste e non serviva più loro una supplenza da parte degli scrittori. Il movimento arrivò ad avere tre quotidiani. Erano tanti i giovani che volevano libri e riviste come “Re nudo” e “L’Erba voglio”…

[…]

A Roma, era stata impostata da Pagliarani e Malerba la Cooperativa scrittori, anche questa un’idea venuta fuori dal 1968, improntata all’autogestione. Quando tornai a Milano, venne fuori l’idea di costituire una sorta di cooperativa di servizi editoriali, l’Ar&a, che era fatta da tre (diciamo) soci: Gianni Sassi che era socio pure di una tipografia, la qual cosa permetteva delle convenienze, e che fece anche il marchio l’Ar&a; io che mi occupavo di ogni aspetto dell’organizzazione editoriale; e Luigi D’Urso, giovano figlio di un ricco avvocato degli Agnelli. Lui studiava al Dams di Bologna, era amico di Bifo, era molto coinvolto, e a un certo punto il padre per agevolarlo in questo progetto ci ha messo un po’ di soldi. Avevamo trovato un ufficio di fianco a quello di Sassi alla Cramps Records, che realizzava dischi [tra cui quelli degli Area di Stratos], vicino alla stazione Nord. In questo ufficio c’era la redazione in cui si preparavano i testi per la stampa, e si confezionava per ogni editore che aderiva alla rete dell’Ar&a la sua veste grafica particolare. Poi c’era la tipografia con il magazzino annesso. Riuscivamo a portare in libreria fino a una decina di libri ogni mese, come un medio-grande editore, e ne favorivamo la distribuzione col sistema degli agenti che prendevano le prenotazioni (oggi trovo terribile il fatto che, anche in Feltrinelli, si facciano gli ordini centralmente a Milano) e il sistema ebbe un buon successo. Sono stati fatti più di cento libri siglati L’Erba voglio, Aut Aut, Re Nudo, Librirossi, Squilibri, I Libri del No o le Edizioni delle donne che poi hanno continuato dopo l’Ar&a perché avevano avuto un grande successo, pubblicando bellissime cose.

Subimmo poi la dura fase di repressione generale delle strutture culturali di quelli che venivano chiamati allora i “fiancheggiatori”, con molte perquisizioni alla sede, finché non hanno mirato a Luigi D’Urso e una mattina due colonnelli dei carabinieri si sono presentati a Roma dal padre grande avvocato dicendogli che il figlio faceva cose che non piacevano tanto, e avvisandolo che per il suo bene sarebbe stato opportuno che non continuasse. Il padre ovviamente si è terrorizzato e da un giorno all’altro ha chiuso tutti i canali di finanziamento, quando dal punto di vista economico il nostro lavoro non era ancora autosufficiente, dopo solo due anni che il progetto era in piedi. Lo dicevo che era una storia di padri e figli. Ma la cosa è stata fatta in modo molto subdolo: a un certo punto il figlio maggiore di D’Urso, anche lui avvocato, si mise in mezzo, spinto dal padre, e fermò tutto con la scusa di verificare i conti; allora la cosa è finita lì, la famiglia decise di mandare Luigi a Londra e, così, con questo brusco stop hanno perso tanti soldi, più di cento milioni di allora, non si sono potuti fare libri che erano stati iniziati, c’erano libri già pronti mai stampati e altri stampati mai distribuiti…Eravamo alla fine del 1978 e poi nel giro di un anno si è fatto “Alfabeta” (1979). […]

 

Come Balestrini disse in un’altra intervista del 2012:

«Mi rendo conto di avere avuto la fortuna di vivere due per me meravigliose stagioni, quella della neoavanguardia letteraria degli anni ’60 e quella del movimento degli anni ’70, stagioni belle, giuste, entusiasmanti, che mi permettono di sopportare senza rassegnazione tutto lo squallore successivo»[1].

 

Grazie a lui, anche i decenni successivi sono apparsi a tratti sopportabili.

 

 

[1] L’eterna battaglia contro le Liale della letteratura, intervista di Antonio Gnoli a Nanni Balestrini, in «La Repubblica», 28 marzo 2012, p. 53.

 

 

P.s.

Testi e parole di Balestrini si trovano anche su “Atti impuri” vol. 1 e vol. 7.