La Casa dei Matti
di Paolo Grusovin

Krasivuyy_vid_iz_okna__podborka_fotografiy_raznuyh_avtorov_17   Salito con i piedini scalzi sul letto e sportosi dal davanzale, il piccolo Matteo ammirava il paesaggio solare, il paesaggio di quell’infanzia che per lui era ancora l’intera vita, un’età in cui due mani possono ancora bastare per mostrare orgogliosi ai “grandi” quanti anni si ha.

__Giugno era ovunque: nel sole che distendeva sulle onde il suo oro, nell’aria già quasi insopportabilmente calda, nei grilli che tentavano di far vibrare con la loro musica l’aria immobile. Inoltre, per un bambino come Matteo, giugno era anche la possibilità di stare la mattina ad ammirare dalla sua finestra il mare, invece di ammirare bianche addizioni su una nera lavagna, mentre il sole della primavera ormai matura chiama fuori i bambini, li invita al lungo gioco dell’estate.

__Era una giornata particolarmente luminosa, il sole era già accecante e prometteva un’estate favolosa. Il piccolo Matteo aveva preso di nascosto gli occhiali da sole della sorella, più per il gusto di farlo che per l’effettivo bisogno di usarli. Chissà se, in questo momento, giù, in città con le sue amiche, si sarà già accorta che non sono nella sua borsetta? Si starà arrabbiando, eccome! Beh, insomma, non era neppure la prima volta che il fratellino le faceva scherzi del genere. Con quelle lenti scure addosso, Matteo aveva l’impressione di dare uno sguardo da “adulto” verso la costa, il mare, i fichi d’India, le piccole isolette e gli scogli sparsi tra le onde. Aveva spesso avuto la sensazione, sentendo gli adulti, che una volta cresciuti si avesse sempre nostalgia per i paesaggi che si vedevano fuori della finestra da bambini, quando bisognava aiutarsi con sedie, letti, o ci si doveva arrampicare sui termosifoni per poter raggiungere il davanzale. Matteo voleva riempire quindi il più possibile i propri occhi con quell’incantato paradiso costiero, per poter avere un ricordo nitido, una fotografia stampata nel cuore, per il giorno in cui la vita l’avrebbe forse portato lontano. Forse non era troppo piccolo, Matteo, per apprezzare la bellezza di ciò che vedeva, forse era proprio la sua ingenuità di bambino che non gli impediva di sorprendersi per le migliaia di segreti che quella vista ancora gli riservava. Non c’erano che un paio di case, più vicine all’alta costa rocciosa, nelle quali sbirciare, ma Matteo si divertiva lo stesso a spiare innocentemente la vita di quei vicini così poco conosciuti, a seguire i passi di adulti quasi estranei sui balconi, voci e grida, rimproveri a figli della sua stessa età che forse adesso guardavano come lui, con gli occhi socchiusi, il riflesso solare sulle onde, collezionavano come lui ricordi per un futuro ancora disegnato a matita sui quadretti dei quaderni di scuola, un futuro fatto ancora di sogni e pennarelli.

__Piante di ogni terra, dell’est e dell’ovest, di mari caldi e spumosi, fiorivano di verde ed altri colori sulle rocce brillanti della scogliera, porose di tane di granchi ed incrostate d’alghe, tombe delle meduse spazzate dai cavalloni. Scogli isolati, alcuni nudi, alcuni sparsi di vegetazione solitaria, si sollevavano dalle onde per raddoppiarsi nell’inquieto riflesso del mare. Alcuni di questi scogli erano abbastanza grandi perché ci fosse su di essi qualche edificio. Su un isolotto sulla destra della visuale sorgevano tre piccole baracche, ricovero per alcuni pescatori che partivano da lì la sera sulle loro lampare, per un rito che viveva eterno nell’antico sangue delle loro famiglie. Sulla sinistra c’era l’isolotto più grosso, anzi, ormai non era più un’isola vera e propria, un piccolo istmo di pietroni la collegava ad un lembo sporgente della costa, ed una mulattiera si allungava fino a questo ponte naturale. Un edificio, non molto grande, si levava solitario su quest’isoletta deserta e pietrosa. Era a due piani, con l’intonaco bianco spento, ormai anzi grigio, piccole finestre quadrate con delle inferriate; non se ne vedeva la porta, che era forse su uno dei lati non visibili dalla finestra di Matteo. Non sembrava pulsare di nessuna vita, quella che la mamma aveva sempre indicato a Matteo come la Casa dei Matti. Gli aveva raccontato che era stata tanto tempo prima una sorta di manicomio, dove andavano, non si sa se per scelta o per obbligo, coloro che volevano scappare dal mondo, o coloro che il mondo non voleva più, gli “strani”, i diversi, gli alienati. Quell’edificio non avrebbe affascinato, o per lo meno incuriosito così tanto Matteo, se non gli fossero state mai raccontate queste storie. La sua immaginazione lavorava senza sosta nel dipingere gli ambienti che giacevano pieni, vuoti, chi lo sa, al di là di quelle finestre sbarrate; le sue pupille tremavano al pensiero dei volti, delle urla, dei pianti e delle folli risate che risuonavano tra quelle pareti.

__Eppure, guardando l’edificio, non c’era nulla che tradisse la presenza di qualcuno o qualcosa all’interno. Non una voce traversava la brezza marina, carica di salsedine, per raggiungere le orecchie distratte della costa. O meglio, no, ogni tanto a Matteo sembrava di sentire un urlo, od una risata, oppure voci febbrili e tremanti venire dalla Casa dei Matti, ma questo non succedeva mai quando vi prestava attenzione. Avveniva quasi sempre la notte, quando dalla finestra aperta per lasciare entrare il fresco notturno penetrava anche una voce, quasi inumana. Allora, se l’udiva, Matteo saltava su nel letto, per spalancare immediatamente le imposte e guardare, guardare se tutto ciò era vero, se ci fosse qualche luce o qualche movimento che rivelasse la presenza di qualcuno, lì dentro. Ma solamente il buio gli rispondeva con il proprio silenzio. Era la sua immaginazione che creava il dolore, la follia che riempiva quei corridoi? Erano gli abbagli del sole che gli facevano sembrare, in giornate molto luminose, che una qualche creatura passasse dietro le inferriate? Erano i miraggi della calda estate che giocavano con la sua immaginazione di bambino?

__Non la conosceva solo lui, la Casa dei Matti: molti, in paese, vi accennavano, davano qualche velato ricordo di quel suo tetro passato. Non tutti avevano però voglia di parlarne, molti ne tacevano la storia, ne tacevano la vita, pur conoscendo e ricordando. Tra i bambini compagni di giochi di Matteo, tutti erano a conoscenza della Casa dei Matti; molti ne avevano paura, per tanti genitori essa era una sorta di “minaccia”, un trucco, un babau per far spaventare i bambini disobbedienti. Giocando, i bambini s’erano spesso avvicinati allo stretto ponte di rocce che raggiungeva l’isola; da lì un sentiero appena tracciato si disperdeva tra l’erba e la ghiaia. Ogni bambino voleva dimostrare il suo coraggio, sfidare i fantasmi che infestavano quella casa e quelle menti ingenue. Si stuzzicavano tra loro per dimostrare chi fosse il più audace, eppure non sarebbe stato così difficile oltrepassare quel piccolo lembo di terra per andare a toccarli con mano, i fantasmi, i matti. Invece, i bambini preferivano rimanere là, a fissare con i loro grandi occhi d’infanzia quelle mura morte, le orbite delle finestre che rispondevano con il loro sguardo cavo. Pochi minuti di silenzio interrompevano il vivace baccano di giochi, carichi della pur forte tentazione di dimostrare di essere il più coraggioso, di diventare finalmente “grande” agli occhi degli amichetti, atterriti da quel silenzio, da quel buio, dagli echi vuoti di quell’edificio pieno di nulla, o forse della follia che vi aveva un tempo alloggiato. Tra i bambini si amava anche inventare incredibili storie sui pazzi secondo loro ancora chiusi là dentro, incatenati sull’orlo di pozzi senza fondo che, una volta liberatisi, avrebbero tutti giurato di aver visto fuori della finestra della propria camera da letto, con un orribile ghigno insanguinato. Il gusto irresponsabilmente macabro dei bambini cercava pur sempre di rompere la tensione; in realtà, chi di loro non sapeva che tutte quelle storie erano frutto d’invenzione, ma, allo stesso tempo, chi avrebbe voluto interrompere quelle fantasie tanto suggestive? Finalmente qualcuno rimontava sulla propria bicicletta ed invitava tutti gli altri ad andare a giocare in paese, nella rada del porticciolo. Tutti, ridendo ed urlando, davano del vigliacco a chi faceva questa proposta, ma, in realtà, tutti ne erano contenti.

__Era veramente un’estate splendida, quella che il sole di giugno annunciava; era già passato un altro anno di vento sulla costa, di onde sugli scogli, di fantasie di Matteo sulla Casa dei Matti. Un anno in più, ma con le stesse fantasie. Matteo pensava a quanto ancora il suo cervello avrebbe fantasticato sui poveri pazzi che urlavano e strisciavano sui pavimenti di quel tugurio. Un giorno non avrebbe più avuto bisogno del letto per affacciarsi al davanzale, un giorno le sue manine sarebbero diventate molto più grandi, non ci sarebbe stata più una scuola che chiudesse i battenti per le vacanze, non ci sarebbe stato più il bambino… Che fine avrebbero fatto quelle visioni, le musiche d’una rapida infanzia, quali mura avrebbero dato ricovero ad sogni informi, a fantasie frementi? Sarebbe tornato lì cresciuto, Matteo, ormai un vero uomo, con la sua bellissima e grandissima macchina, con sua moglie ed i suoi bambini, ed avrebbe mostrato loro, ecco, lì, sì, quella, quella è la Casa dei Matti, dove un tempo venivano chiusi i pazzi… Ed a loro volta i suoi bambini avrebbero colorato di scarabocchi di follia le mura del tugurio, e dopo di loro i loro stessi figli, e così avanti, così avanti per sempre… Sarebbero passati e vissuti anni, cose e persone, ma i matti no, sarebbero sempre, sempre vissuti. Quella parte buia, quella pazzia che vuole sempre fuggire avrebbe sempre trovato il suo riparo dietro a quelle sbarre rugginose intrecciate, sotto le tegole malferme di quel tetto cadente, oltre lo stretto lembo di terra su cui già ormai sfiorivano i papaveri… Proprio in quella baia, in quel regno assoluto di sole e luce, voleva continuare a vivere un piccolo, oscuro, misterioso angolo di follia.

__“Non morirà mai, la follia”; questo pensiero passò per la mente di Matteo, e lo fece leggermente rabbrividire. “Salutò” con un pizzico di paura la Casa dei Matti, e tornò dentro la camera. Quella sera, però, non avrebbe voluto addormentarsi per niente; avrebbe passato la notte così, affacciato al fresco del davanzale, a riempire i sogni dei pazzi addormentati tra le mura ammuffite, tra l’eco delle onde sulle scogliere… I minuti dell’infanzia scivolavano rapidi sulla chiara pelle di Matteo; la nuova estate sarebbe presto passata.

 

 

L’autore

Paolo Grusovin è nato a Gorizia nel 1977, si è laureato in lingua e letteratura russa nel 2003 e ha terminato un dottorato di ricerca nel 2009. Subito dopo si è trasferito a Mosca, dove vive tuttora; lì lavora principalmente come traduttore e interprete, e talvolta come insegnante d’italiano. Ha lasciato per troppi anni testi chiusi nel cassetto. Ha tradotto con Marianna Sili il racconto Esperienza nell’esternare il lutto di Marina Višneveckaja su Atti Impuri, vol. 2.