David
di Marco Mazzucchelli

smoke_ David, in slip bianchi, si lasciò cadere sulla poltrona sfondata della sua camera. Ci affondò dentro consapevole e si portò lentamente due ciocche di capelli biondi dietro le orecchie. Era mattino, le tapparelle erano alzate e il sole si abbatteva sulla parte opposta del palazzo. Nonostante fosse ancora estate, dalla finestra aperta entrava una brezza fresca, che per un attimo gli fece venire la pelle d’oca. Sedeva con la luce del mattino alle sue spalle, come se fosse un’aura, con il letto perennemente sfatto, arruffato, le lenzuola sudate e mollicce. Portò il busto in avanti, si sedette sul bordo e, dopo essersi sfregato le mani, con rituale lentezza iniziò a recuperare il necessario per rollarsi una canna. Fuori dall’appartamento si sentiva la consueta danza dell’ascensore tra i piani. Era ritmica, frastagliata. Considerato anche l’orario, non erano più i suoi vicini che stavano andando al lavoro, ma la donna delle pulizie che si trascinava il secchio dell’acqua per i piani.
«Beh, Francesca è sempre stata attorniata da ragazzi, sai, è quel tipo di ragazza che ne ha una valanga no? Uno sproposito di amici maschi, ognuno dei quali è convinto di essere il suo preferito, di avere delle chance con lei. Ma nessuno di questi poi ci prova – e io non so se esserne contento o no – perché tutti si cagano letteralmente nelle mutande al solo pensiero di provarci con lei.»
Si sporse ancora sul bordo della poltrona, curvo sul bracciolo e tastando per terra trovò il pacchetto di sigarette.
«Perché nel caso remoto – ma pur sempre probabile, secondo loro – in cui lei li possa respingere, loro intendo, i respinti, cadrebbero in uno stato di disgrazia, una specie di limbo. Non sarebbero più della cerchia di cui avevano fatto parte prima di provarci, e quindi Francesca li tratterebbe con più freddezza. Non si confiderebbe più con loro. Verrebbero derisi e guardati dall’alto verso il basso da tutti gli altri, con il risultato di sentirsi ancora più sfigati di quello che effettivamente sono.»
Strappò una striscia da un biglietto della metro, la arrotolò e la pose sul tavolo. In mezzo alle confezioni aperte di patatine, alle riviste di mountain bike, ai sacchetti e a scontrini vari, trovò l’accendino, vicino all’iPod.
«Non lo so, ma a me sembra che in quest’ottica io sia sempre stato quello invidiato da tutti, da questa specie di associazioni di idioti, perché lei è mia – o dovrebbe esserlo – ma allo stesso tempo sono sempre stato anche il coglione che deve sopportare tutta l’esuberanza di Francesca no? Tutti questi suoi cazzo di amici che come dei mosconi le ronzano attorno, le telefonano, le mandano delle email, la invitano al cinema o ai concerti e io, cazzo, a vedere come si comportano, è come se non esistessi. Quando vado a mangiare a casa sua o passo a prenderla per uscire, quasi sempre mi trovo un paio di questi dementi sul suo divano, o seduti in cucina a parlare con suo padre. Delle volte devo pure scarrozzarli da qualche parte, oppure sono loro a volerci assolutamente accompagnare da qualche parte, con io che sembro sempre che quello di troppo – e non il contrario.»
Posò l’accendino e tirò fuori una cartina dal pacchetto, se la posò in grembo e aprì il pacchetto di sigarette.
«Ma, in fondo, io non è che abbia mai dovuto preoccuparmi davvero per questa cosa. Francesca è sempre stata brava a gestire questa situazione, le è sempre piaciuto avere tanti amici, non per vantarsi o fare l’ape regina, o forse sì, ma è che le piace parlare e, non so, forse con me non lo fa abbastanza. Mi rendo conto di non parlare di frivolezze, di cose divertenti, e forse a lei ogni tanto serve questo genere di distrazione. La cosa importante, comunque, è che non ci ho mai visto della malizia da parte sua, e c’è da dire anche che, in ogni caso, io non avrei potuto fare granché. Se fossi stato uno possessivo, geloso, sarei impazzito, avrei iniziato a vedere segnali di tradimento un po’ ovunque. E così…»
Da fuori arrivò il rombo del clacson di un camion. Si poteva quasi percepire il calore esalato dal consumarsi degli pneumatici sull’asfalto. L’odore pieno di catrame e fibre petrolchimiche che si laceravano e si sfaldavano, l’asfissia del tubo di scarico, l’inferno del motore trattenuto nella gabbia di metallo.
«Io questa situazione l’ho un po’ sempre subita. È vero che le lascio dire cazzate con chi vuole e certe volte partecipo anch’io – intendiamoci, questi ragazzi in buona parte sono anche amici miei, cioè, amici di riflesso, non amici veri, ovviamente. Durante la settimana mi capita anche di vederli, ci parlo anche se li incontro senza Francesca, anche se delle volte non posso fare altro che starmene in disparte, stare con il corpo esattamente un passo dietro di lei, ma con la testa su un altro pianeta. Mi tappo le orecchie e la aspetto in piedi, faccio qualche sorriso di circostanza e annuisco quando uno di questi si rivolge a me – non so se lo fanno per educazione o perché mi compatiscano, anche perché davvero non c’è nessun motivo per cui loro debbano compatire me, no?»
Finì di arrotolare lo spinello e se lo accese. Fece il primo tiro e una bolla di fumo bianco salì verso il soffitto, sfaldandosi, e i suoi occhi azzurri diventarono immediatamente annacquati. Chiuse impercettibilmente le palpebre e si lasciò cadere indietro, contro lo schienale, affondando la nuca nell’imbottitura.
«Non lo so. Non so cosa le stia succedendo. Certo che sono preoccupato, ma cosa posso fare? L’unica cosa che so è che questa volta i suoi amici babbei non c’entrano.»
Accavallò le gambe bianche, muscolose e glabre. Stava a piedi nudi. Si adagiò il posacenere di vetro verde incrostato di catrame sul ventre, ci fece cadere dentro la cenere senza badarci troppo, come un gesto automatico, e appoggiò gli avambracci sui braccioli della poltrona. Dalla mano destra in controluce saliva la stringa filamentosa del fumo bianco.
«Non so davvero cosa sia andata a fare a Chicago questo inverno, e più il tempo passa e più non lo voglio sapere. Ma è anche vero che io e lei siamo sempre stati così, certe cose non ce le siamo mai dette, abbiamo sempre abbracciato questa filosofia del dire e del non dire, un po’ perché non serve, perché io e lei ci capiamo, ma un po’ anche perché su certe cose è più facile passarci sopra e basta, lasciarle da parte, indietro. Negli ultimi mesi, dopo tutto quello che è successo, lei mi è stata vicina, forse non mi è mai stata così vicina. Ho sentito tutto il suo supporto, anche fisicamente. È stata al mio fianco, mi ha aiutato a traghettare in questi mesi di merda dai quali avevo paura di non poter più venir fuori. È questa la cosa che conta. Io so che lei c’è per me quando ho bisogno, è questa la cosa importante. Poi ok, in questi cinque anni ci sono stati momenti più freddi, più difficili da attraversare, ma ce li siamo sempre lasciati alle spalle. Credo che il successo della nostra relazione sia stato questo non soffocarci a vicenda.»
Fece un tiro, ruotò la punta dello spinello verso di sé per controllare. Tenendo fermo sullo stomaco il posacenere con la mano sinistra, ci riversò la cenere dentro con la destra. Da dietro la porta giungevano i rumori di pentolame e stoviglie.
«È che adesso, è che io mi sono sempre fidato, non le ho mai rotto le palle anche quando vedevo che c’era qualcosa che non andava, tanto le cose si sono sempre sistemate da sole. E anche se adesso vedo che lei è strana, che sta succedendo qualcosa – o che è già successa – non so che cosa fare… ma la vuoi sapere la verità? Non me ne frega un cazzo, nemmeno di quel pezzo di merda di un Americano che adesso la sta ospitando a Roma. Quello non mi è mai piaciuto sin dalla prima volta che l’ho visto. Ho avuto subito l’impressione che nonostante lui non fosse, diciamo, una presenza fissa, sarebbe comunque stato una presenza ingombrante. Immagino che a febbraio Francesca lo abbia incontrato a Chicago, anzi mi sembra che me l’abbia anche detto, ma non so altro, e non voglio immaginare altro. Ma non importa, il problema è che io, nonostante avessi avuto una brutta sensazione, nonostante percepissi che in Francesca ci fosse qualcosa di strano, non ho avuto le palle per accompagnarla. Ho preferito chiudere gli occhi e lasciarla andare da sola.»
David alzò le spalle, come a scrollarsele, e i muscoli degli addominali apparvero per un attimo sotto gli strati di epidermide.
«Non ho avuto le palle per combattere per lei, per tenermela stretta e non farmela portare via. È vero. Ma ero terrorizzato all’idea che la mia presenza non sarebbe servita a niente e che, se fosse successo, se lei davvero fosse caduta tra le braccia di questo Michael, sarebbe potuto succedere anche sotto i miei attoniti, inutili e patetici occhi. Questa è la verità e, quindi, se adesso sta davvero succedendo qualcosa tra di loro, me lo merito e basta.»
Il cellulare iniziò a suonare. David impugnò il posacenere e si sporse in avanti senza scavallare le gambe, spostò dei sacchetti e delle riviste sul tavolo. Lo trovò e controllò chi lo stava chiamando. Sbuffò, lo mise in modalità silenziosa e lo lanciò sul letto. Si fermò a guardarlo rimbalzare sul materasso per due volte e poi cadere a terra. Poi ributtò la testa indietro e si appoggiò di nuovo il posacenere sullo stomaco.
«Cazzo, sembra che tutto sia andato a farsi fottere all’inizio di quest’anno. È stato un capodanno di merda, abbiamo litigato, non mi ricordo nemmeno per cosa, e da lì in poi siamo stati tutti e due più freddi. Poi quel cazzo di viaggio a Chicago, dal quale sembrava tornata rinvigorita. Prima di partire mi aveva detto che un po’ di tempo lontani ci avrebbe fatto bene – come a dirmi che facevo bene a restarmene a casa – che non dovevo guardarla con quegli occhi perché non ci stavamo assolutamente prendendo una pausa – perché lei semplicemente andava in vacanza e io semplicemente stavo a casa, per mia scelta, perché se avessi voluto avrei potuto accompagnarla e lei ne sarebbe stata felicissima – ma che, comunque, questa cosa avrebbe potuto farci bene. Così mi aveva detto, e io non è che non fossi d’accordo, anzi, ma quando è tornata rinvigorita, no? Ma anche strana. Non diceva quasi nulla del viaggio, eppure era frenetica, solare, sembrava sempre occupata e ci vedevamo poco, meno di prima.»
Si guardò in giro con lentezza. Sotto il tavolo trovò una bottiglia di coca-cola, la prese, svitò il tappo con una mano, la bottiglia sfiatò stancamente, e ne bevve un sorso disgustato. Poi lo rimise a terra e tirò un’altra boccata di spinello. Le parole si incollavano alle labbra, la lingua schioccava sul palato. I suoi movimenti si erano fatti più lenti, anche il solo spostare la testa e l’espandersi e il ritirarsi della gabbia toracica per respirare. Sembrava che la poltrona lo stesse inghiottendo, mentre i suoi occhi si facevano di un azzurro più spento, pronti a traboccare.
«E alla fine cosa ne ho ricavato? Che adesso cerco di non pensare a niente, perché se solo ci penso inizio ad aver paura che Francesca se ne vada, perché poi inizierei anche io a girare frenetico come una trottola per rincorrerla e riprendermela. Però Francesca è perlomeno una persona e non una cosa – o un lavoro, o una posizione sociale – mi capisci? Alla fine, delle cose che ce ne facciamo? Ma delle persone, mi piace pensare che se dobbiamo portarci dietro qualcosa dopo la morte, debbano essere per forza le persone. Ma le cose? A che servono? Quando le persone sanno che stanno per morire, che se ne fanno delle cose?»
Parlando, i polmoni rilasciarono gradualmente il fumo, che gli salì al volto come una nebbia sottile. David fissò una foto appesa al muro davanti a lui e tacque per un attimo. Sembrava che i rumori che arrivavano dalla strada si fossero spenti. Uno strano silenzio invase la camera e le tende avevano smesso di muoversi.
«E poi, come se non bastasse, c’è anche tutto quel casino che è successo con mia sorella, l’incidente sulle piste da sci, quel maledetto funerale, quella cazzo di bara, e non so ancora che cosa mi abbia preso. Anche se ero imbottito di canne da giorni – non so quante me ne sono fumate, forse una dietro l’altra – se chiudo gli occhi ancora la vedo. Penso che se si fosse aperta, sarei morto anch’io, mi sarei ammazzato con le mie stesse mani in quella chiesa. Da quando avevo saputo che faceva quelle cose, mi ero ripromesso di proteggerla… e non sono riuscito nemmeno a fare questo.»
David tornò a guardare la foto. Lui e una ragazzina con il caschetto biondo e una maglietta bianca, seduti sul bordo di un marciapiedi, spalla contro spalla. Portò ancora la mano destra alla bocca e aspirò brevemente.
«È da lì che Francesca si è ravvicinata e – anche se non posso dire che siamo tornati quelli di prima, non posso proprio dirlo – siamo di nuovo stati sempre assieme. Mi sta sempre vicino, mi sembra che come coppia siamo ritornati sani e questi mesi per me sono stati la prova del suo amore. Io la amo e so che lei mi ama, ma non so se qualcosa si sia messo ancora tra di noi. Per adesso non posso fare altro che aspettare e vedere cosa succederà. Dopodomani tornerà e…»
Guardò il mozzicone di spinello, lo prese tra il pollice e l’indice come se fossero una pinzetta e fece un ultimo breve tiro prima di spegnerlo nel posacenere. Quindi, lo posò a terra vicino alla finestra. Buttò fuori l’ultima boccata di fumo e chiuse gli occhi.

 

 
Marco Mazzucchelli ha pubblicato racconti per Neo Edizioni, Nazione Indiana, Prospettiva Editrice, Riot Van Magazine, Crapula Club e Casa Lettrice Malicuvata.