Bimbi atomici

NoiBimbi2016coverEra estate come sempre.

Il sole dorava le lucertole e arroventava la spazzatura agli angoli delle strade, dove sciami di mosche presidiavano gli avanzi del pranzo e altri insetti si appoggiavano a lattine vuote senza alterarne il peso. Lo scirocco agitava i panni stesi accanto alle cisterne dell’acqua animando, a folate, danze di fantasmi. In apparenza, le giornate procedevano come d’abitudine, a cominciare dai boschi che prendevano fuoco all’improvviso e dai ripetuti interventi del Corpo forestale, dotato di speciali aereoplani in grado di trasportare ettolitri di mare. Pesci volanti passavano sulle nostre teste dopo esser stati presi nella fusoliera, diretti verso la collina, verso l’incendio. Li seguivamo pigramente con lo sguardo, all’ombra degli ulivi. In apparenza perché, a osservare meglio, la vita in paese era tutta diversa per la prima volta.

 

Merito degli ospiti giunti da lontano. Non avevamo mai incontrato qualcuno che stesse peggio di noi. Qualcuno in uno stato di tale disagio da considerarci una cura, un balsamo. All’inizio pareva uno scherzo, poi la febbre o un effetto della luce. Sta di fatto che arrivavano in forma di bambini pallidi coi capelli impastati di pulviscolo radioattivo. Arrivavano in affidamento temporaneo, fino a gremire le piazze di creature trasparenti. A quanto si capiva, ce li mandava l’Unione Sovietica per temperare gli effetti di Chernobyl. Non avevano scelto il Nord, le pianure antropizzate e le file ordinate in riva al lago, ma il gelsomino e le fogne a cielo aperto i cui effluvi si impastavano all’ingresso del paese.

 

Li amavamo senza riserve, compiaciuti del loro stupore per le lavatrici. Sguardi di cristallo persi dentro l’oblò mentre la centrifuga sparava i bianchi e gli scuri a velocità siderale. Avevano tra i dieci e i dodici anni, facevano a gara con le lucertole scendendo di corsa le scale e urlavano col catarro il loro stato di agitazione. Seguivano i tracciati degli impianti come fossero mappe del tesoro, alzando da terra polvere e calcestruzzo, imbiancandosi fino ad assumere l’aspetto di pionieri del lavoro. Ci auguravamo dimenticassero le fabbriche di pioggia dove, in sogno o in fuga, avevano squadrato muscolosi ingranaggi soffiare nuvoloni neri fino allo stato chimico di Kiev e oltre.

 

Per l’alloggio avevamo attrezzato un albergo a ridosso del mare, abbandonato poco prima che i lavori terminassero. La facciata rivelava ancora i mattoni a vista e dalla strada si scorgevano i ferri di attesa puntellati sul tetto per un ultimo piano da edificare. Era abbarbicato sulla scogliera, senza porticcioli privati o accessi alla spiaggia. Ogni giorno, all’imbrunire, si trovavano faccia a faccia col sole che lentamente si spegneva nel mare e si rinfrangeva in mille lame impazzite. Una moneta incastrata in un distributore di luce.

 

Dopo un periodo di ambientamento li portavamo con noi anche di notte. Attraversano le vigne per raggiungere i valloni ai piedi dell’Aspromonte, dove abbandonavano i rifiuti che gli avevamo dato in custodia, gettandoli nella scarpata. Sulla via del ritorno alcuni si perdevano a inseguire e lucciole, graffiandosi nella sterpaglia, finendo a pancia sotto sulle ortiche. Le capigliature fosforescenti, nel buio della campagna, li facevano assomigliare a fuochi fatui che usavano male il dialetto. Poi si faceva una sosta ad ammirare il paesaggio: l’isola assopita, un corpo gigante che galleggia nel Mediterraneo circondato da meduse e navi da crociera. Gli sarebbe entrato dentro come a noi, una marea dopo l’altra.

 

Il mare non lo conoscevano, un elemento ignoto. Nessuno sapeva nuotare, nessuno aveva la benché minima confidenza col sale, le onde, la battigia. Inoltre il sole li feriva e non bastavano confezioni di creme a lenire le piaghe aperte. Nelle ore più calde della giornata preferivamo affidarli alla compagnia dei vecchi e alla quiete delle verande. Per quel poco che vedevano, tra cataratte e tagli di luce, gli anziani mostravano il paese frazionando il paesaggio in singole proprietà, i cui confini invisibili in passato avevano scatenato liti, vendette e sangue. I bambini ascoltavano perdendosi nei loro occhi liquidi allo stesso modo in cui fissavano l’oblò delle lavatrici. In sottofondo le cicale friggevano l’aria.

 

Nei pomeriggi infiniti organizzavamo attività sportive affinché esprimessero il loro di talento di atleti dell’Est. Li sfidavamo al salto in basso. Nessun ostacolo da superare, o rincorse da preparare; si trattava di fare un balzo secco giù dai piani spalancati dei cantieri. Gli edifici a metà a metà si offrivano come trampolini ideali per atterrare sopra le collinette di sabbia che prima o poi sarebbero servite alla causa di compagna betoniera. Chi soffriva di vertigini si avvicinava al baratro tremando, consumando i centimetri come una guardia di confine che striscia su una terra non sua. Nei casi peggiori piangendo tutto l’occidente che aveva tirato sù con le cannucce. Ma alla fine dovevano saltare, senza lamentarsi troppo e in punta dei piedi, dal piano quinquennale saltare, con fiducia estrema nel futuro saltare verso il centro ideologico della terra, lasciando che l’aria stessa li respirasse in volo

per sentire dentro uno dei momenti

in cui si capisce appena che si è vivi

e mai niente di più.