Su una poesia di Andrea De Alberti, di Fabrizio Bajec

 

Gorilla

 

Noi depressi come i gorilla,
con gli occhi tristi e bagnati
di chi prende importanti decisioni,
con la depressione pronta a colpire nel terzo
ventricolo sub craniale, quello dell’ipotalamo,
del nucleo accumbens, della ghiandola pineale,
noi come i gorilla dalla schiena argentata,
dal troppo piombo e mercurio che ci tocca sopportare,
nei cui geni c’è la traccia fossile di bellissimi
comportamenti primordiali,
noi come i gorilla ai quali se si riduce lo spirito competitivo,
aumentano le chances di vincere lo stress,
di sopravvivere più uniti ai morsi della fame,
noi come i gorilla
riusciremo mai ad essere più umani?

 

Ho scelto questa poesia perché è la più compiuta ed emblematica dell’ultima opera di De Alberti, Dall’interno della specie (Einaudi, 2017). Compiuta ed equilibrata, armoniosa come una scultura scevra da imperfezioni, zavorre, curve maldestre, metafore kitsch o scorciatoie gergali presenti invece nella poesia in copertina, con le sue “ragnatele d’infinito” o “tre milioni di anni contro un trentasette”.
Al contrario, la poesia del gorilla va all’osso, permette l’incrocio, tipico in questo poeta, di sentimenti con un vocabolario tecnico. Non ultimo dei pregi, il lettore ne ricava un quadro memorabile. È tuttavia sufficiente per dire che De Alberti è un poeta “sostanzialmente lirico”, come viene definito in quarta di copertina?
Non lo so. Non ne ho le prove sul piano linguistico, lessicale, sul piano ritmico, né in termini di cantabilità, e ancor meno se considero l’angolo di tiro, cioè da che punto di vista sono scritti questi versi. Ma è senza dubbio irrilevante che la poesia sia lirica o meno, dal momento che possiede qualità sintetiche e se condensa significati e significanti attraenti, come i “bellissimi / comportamenti primordiali” comuni alla scimmia e all’uomo.
De Alberti è erede delle sequenza neoavanguardista italiana che lasciò qualche traccia anche nell’opera di Magrelli e Zeichen. Come Magrelli, una poesia di De Alberti può essere generata dalla lettura di un articolo di giornale (è il caso del Gorilla, nata leggendo “Tutto scienze” della Stampa, tiene a farci sapere l’autore). Ma nel libro si usano con disinvoltura elementi della nostra cultura di massa, come una marca di mobili o i super-eroi dei fumetti americani, sempre con il tono della constatazione postmoderna, presumendo che di questo siamo fatti.
Eppure la figura del gorilla ˗ anch’esso una sorta di eroe grossolano, nella sua declinazione cinematografica di King Kong – non sta qui solamente a ricordarci l’americanizzazione della cultura italiana cominciata nel dopoguerra, fosse anche con l’aiuto di quegli eroi. Il gorilla piange come noi, e la chimica del pianto segue processi interni comuni all’uomo e alla bestia dando luogo al medesimo sentimento di impotenza. Lo sguardo di questo primate è forse lo stesso che abbiamo scorto in alcuni foto-reportage sui bambini devastati dalla fame nel continente africano. Penso al verso finale del componimento (“sopravvivere più uniti ai morsi della fame”).
Una immobilità e una sospensione di cui ci sappiamo capaci, anche quando prendiamo “importanti decisioni”, precisa De Alberti. In questo stato di rallentamento e di sconfitta totale è allora possibile avere qualche probabilità di non soffrire di un’altra piaga del ventunesimo secolo: lo stress. Là dove la poesia è sottilmente tragica è quando lascia intendere che un male ne sostituisce un altro. Sappiamo bene che i due mali, depressione e ansia, sono compatibili e concomitanti.
Ma cambiando l’ordine dei termini il risultato in poesia non è lo stesso. È del resto così che si compiono miracoli. L’autore scrive dall’interno della specie, deve dunque (e più che mai in questo testo) andare all’osso, sentire il freddo del passaggio da un’era all’altra, sensazione ripetuta in diverse zone della raccolta, sottoforma di figure attinenti, il ghiaccio che conserva e ricopre, sotto cui giace il ferro e il mercurio.
Il bianco del gelo ci riporta, per associazione, ai “gorilla dalla schiena argentata”, immagine che sussume sia il passaggio del tempo, le attese geologiche, sia quanto di bello c’è da osservare in natura e nei comportamenti umani. Per cui questa esplorazione (o meglio lettura diagonale) dell’evoluzione della specie non ha mai toni catastrofisti e lascia sempre emergere una giovane speranza.

(Fabrizio Bajec)