Su Il digiuno natalizio di Sergej Zav’jalov

Poesie_Zavjalov_coperta-e1455557345455Ciò che fa di Zav’jalov un poeta russo a tutti gli effetti, perfettamente iscritto nella sua tradizione, nonostante il «posto particolare che egli ha assegnato al suo mondo», come ci dice Paolo Galvagni nella prefazione del volume miscellaneo di cui ci occupiamo, è il fatto di aver lavorato sui due temi maggiori della suddetta tradizione: il cristianesimo ortodosso (che attraversa la letteratura nazionale già da Dostoevskij) e la Rivoluzione, che contiene in sé il tema della sanguinosa guerra ideologica.
Ci è dunque permesso di pensare che a dispetto della forma originale delle strutture poematiche di Zav’jalov, polifoniche e frammentarie, egli si iscriva tipicamente nella continuità della poesia russa; da una parte riprendendo il piglio ironico della tendenza i voga negli anni ’90 (lo si veda in apertura di libro, nella prima sezione dedicata al polacco Zbigniew Herbert, laddove si mantiene una distanza post-moderna) e dall’altra inserendo dei frammenti lirici nell’epopea anti-lirica della Battaglia di Leningrado (terza sezione).
In questa mappa della storia russa, il poeta si distingue per il suo interesse etnografico e per la salvaguardia delle differenze linguistico-culturali regionalistiche. E noi rileveremo almeno due pilastri del libro: «  Quattro buone novelle  » e «  Cantate sovietiche  ». La rielaborazione dei Nuovo Testamento e della tragedia sovietica è sottesa da un comune sentimento religioso e da una chiarezza formale che restituiscono la malinconia della presenza cristica sul suolo russo e la tragedia dell’utopia tradita. Entrambe le vicende appaiono come un potente ma triste miraggio. Uno spettro messianico che non finisce di passare e ripassare fino alla fine dei tempi, e di cui il popolo russo non si libera. Non è possibile, sembrerebbe, fare i conti con la storia russa (e Zav’jalov ha questo coraggio) al di fuori di questa dialettica.
In Italia il solo poeta che abbia tentato, con risultati egregi (superiori a quelli di Pasolini) un simile percorso nazionale, scegliendo forme procedurali poematiche, corali e frammentarie, è Roberto Roversi. E questo fin da subito, ma più esplicitamente in uno dei suoi lavori più tardivi, La partita di calcio.
Anche in Zav’jalov, vincitore quest’anno del Premio Ceppo Internazionale Piero Bigongiari, l’io poetico è totalmente assente, la Storia prende violentemente il sopravvento sull’individuo. Anche per lui si può parlare di una geografia dei segni, nella quale il frammento (prosastico, cronachistico, o lirico che sia) è l’unica soluzione e ineluttabile per raccontare la distruzione avvenuta.
Fa bene il curatore Paolo Galvagni a parlare di tragedia greca, quando individua nelle cantate sovietiche vari personaggi, che a noi sembrano parlare da soli. Nessun dialogo qui, ma una serie di interposizioni e interruzioni incessanti. Ognuno sembra voler raccontare l’illusione a suo modo.
Il tradimento dell’ipotesi comunista non ci è riconsegnato direttamente, per mezzo della denuncia di uno dei testimoni al funerale del dittatore, ma attraverso la potenza dell’illusione come fede cieca. La donna che intona una canzone a Stalin (p. 117) ricorda felicemente un personaggio brechtiano, e il suo ruolo è nitido, come lo sarebbe in una ballata dell’autore tedesco.
Diverso è il discorso per le «Quattro buone novelle», ma anche qui i poemetti si distinguono dalla produzione più fattuale di Zav’jalov, orwelliana, ma sintatticamente più traballante, perché la contrapposizione tra le citazioni bibliche in neretto (limpide come parabole) e la frammentazione salmistica che segue non provoca la solita discontinuità ritmica e ripetitiva, ma il tono è lo stesso. È quello dell’oracolo senza storia. Per l’autore non c’è bisogno di credere in questo Cristo regionale, o in Allah, basta seguire l’epica, come si segue una saga, ascoltandola. E tale saga risulta nettamente più orecchiabile del «Digiuno natalizio» o dei poemi della prima sezione, specchio rotto sul quale lirismo e citazionismo non si risolvono congiuntamente.
Di sicuro, è la forza di questa voce a convincerci, e va ascoltata perché trascina con sé, senza volerlo, quanto di meglio e di nobile nella sua povertà la poesia ha espresso sotto la dittatura. Pensiamo a Mandel’stam nella citazione di seguito:

 

Ancora vedo le trincee in poltiglia
(tentiamo di estrarre l’acqua, ma non si riesce).
Vedo un ebreo goffo, che non ha imparato a camminare a tempo
(l’hanno ucciso per primo).
Vedo una gavetta fumante con una brodaglia
(festa: la cucina è arrivata)
Vedo la suola sfondata della scarpa
(uccideranno il vicino – ne riceverai una nuova).

 

(Fabrizio Bajec)

 

Sergej Zav’jalov, Il digiuno natalizio, a cura di Paolo Galvagni,

Fermenti – Fondazione Piazzolla,

Collana Percorsi della poesia contemporanea, 2016, € 18,00.