Il terrorismo funziona (…a breve termine. Ma smettiamo di rifocillarlo).
di Fabrizio Bajec

terrorismeVenerdì 13 novembre, ore 22. Gli attentati sono già stati compiuti, e ci dirigiamo, ignari, verso un ristorante, rue Quincampoix, dopo una lettura di poesia di William Cliff.
Già all’entrata, la gente che fa parte del nostro piccolo gruppo riceve dei messaggi sugli smartphones. I gestori del ristorante sono informati, ma non dicono niente.
Si sono verificati degli attentati in almeno cinque zone della città: un centinaio di morti.
Sembra una barzelletta. Ci sediamo comunque a un tavolo e ordiniamo dei piatti leggeri.
Con William parliamo di traduzione, gli chiedo in quali paesi è tradotto al momento e come. In Messico gli hanno predetto il premio Nobel. Di qui la mia domanda.
Apro nuovamente il dibattito sul verso libero e il verso regolare. Il secondo non mi sembra una garanzia di riuscita per un poeta d’oggi e gli faccio alcuni esempi.
Nonostante l’interesse della conversazione e la simpatia del nostro piccolo gruppo di commensali, i clienti del ristorante diventano sempre più nervosi. I messaggi scorrono sui social networks e alcuni di noi si servono troppo spesso del vino.
Specie dopo che i gestori annunciano di abbassare la saracinesca del ristorante, visto che ci sarebbe una sparatoria i corso proprio qui, nel quartiere di Les Halles (informazione fallace) e i terroristi sono in fuga. Anzi, avanzano irresistibilmente in più zone di Parigi.
Ed ecco infine la frase che ricorderò e che non finirà di allarmarci nelle ore che seguiranno. Un cameriere aggiunge: «La polizia non riesce a controllarli. La situazione sembrerebbe incontrollabile».
La gente si alza da tavola, chiama le famiglie, gli amici. Guardo mia moglie, guardo William e gli parlo degli aerei da caccia francesi in Siria. Lui mi risponde col suo solito tono ambiguo, mezzo-sorpreso: «Davvero?».
Una seconda porta del ristorante, quella che dà sul cortile interno, si apre troppo facilmente. Della gente esce per fumare. C’è un via vai, e questo disturba William che è seduto quasi all’ingresso.
In seguito al suggerimento della polizia di chiudere l’entrata, si dice che una sparatoria è in atto qui nella via, in rue Quincampoix (altra informazione tossica).
È forse un altro di questi messaggi che circolano sulla rete da cui dipendiamo in maniera spaventosa?
Mia moglie dice che se dobbiamo morire, è destino e lo faremo a tavola. La gente ordina altre bottiglie di bianco.
Ci lanciamo in un parallelo tra il terrorismo degli anni ’70 e quello attuale, senza renderci conto che il terrorismo funziona a breve termine, poiché quello che stiamo vivendo è il terrore, per l’appunto.
Siamo almeno in tre a capire e giustificare ciò che avevano in testa i tedeschi della Baader-Meinhof. Staremmo quasi approvando le soluzioni scelte, almeno quelle della prima fase.
A me questo pare un modo per condannare il terrorismo islamico radicale, le cui rivendicazioni non hanno nulla a che vedere con l’altro, quello rosso, in un certo senso più idealista.
Va bene, allora giustifichiamo una certa violenza con la scusa che gli altri erano più intelligenti ma molto inefficaci e, in fondo, perdenti, tutti perdenti alla lunga, come lo sono gli estremisti di oggi.
Ne siamo davvero sicuri?
Un critico belga mi assicura di sì. A lungo termine ci perdono perché non potranno mai trasformare il mondo, cambiarlo a loro immagine. Anche se sono sostenuti dalle potenze petrolifere, o inventati e sfruttati da altre potenze imperialiste occidentali.
Ancora un altro sistema che abbiamo trovato per esorcizzare la paura.
«Moriranno, prima o poi, finiscono sempre male, e la grande maggioranza sopravvive comunque al loro passaggio».
Ma i taxi non rispondono alle nostre chiamate e le ore si sommano.
Sono quattro ore che siamo più o meno seduti in questo posto e la situazione non si distende in alcun modo.
Alcuni hanno previsto di passare la notte nel palazzo, invitati dagli inquilini che offrono e stendono coperte sul pavimento dei loro condomini.
I primi non esitano a cogliere l’occasione e salgono, salutando gli altri commensali.
E poi ecco i taxi che riprendono servizio.
Più di 100 persone assassinate e altrettanti feriti. Continuiamo a non crederci.
Siamo rimasti in sei o sette nel ristorante, ma ora pronti ad uscire.
Peccato, mi ero preparato a passare la notte su una delle panchine rosse della sala.
Fuori la gente ha il coraggio di stare in piedi, sparpagliata. Fumano e bevono. Nessun pericolo. Avremo davvero il tempo di fare qualche centinaia di metri per salire al primo piano di un’istituzione culturale e da lì chiamare un taxi?
Mi ritrovo di colpo circondato dai libri. Lo scenario è cambiato. Ma ci siamo portati dietro delle bottiglie di rosso e la proprietaria del luogo prepara degli shots di vino con i bicchierini di plastica che servono normalmente al distributore di caffè.
Mezz’ora più tardi, il tassista, riportandoci a casa, ammette di essersi fermato alcuni minuti in macchina per ascoltare il suo cuore: «Ce l’avrò il coraggio di andare al lavoro stanotte, con tutto quello che ho sentito alla radio?»
In città, i bar di norma aperti fino all’alba sono tristemente deserti e neri. Tutto è così oscuro nelle strade.
Andremo a stenderci cercando di chiudere gli occhi, anche se personalmente ho le più grandi difficoltà di questo mondo.
Sono quasi le 5 e una carneficina è stata commessa, di fatto, come ho potuto verificare in rete, prima di far finta di addormentarmi accanto a mia moglie che non vuole rivolgermi la parola fino all’indomani.
Per lei, posso anche continuare ad abbuffarmi di notizie e immagini di morte.
Sono già vittima del secondo potere dei terroristi: la loro dominazione mediatica sul mio spirito, sulla mia impotenza e infine sul senso di colpa di tutti quelli che sono sopravvissuti.