Dimenticare L’angelo esposto
di Ade Zeno

Alcuni mesi fa, verso la fine di maggio, è uscito il mio secondo romanzo, una storia di funamboli e ingarbugliamenti amorosi che Il Maestrale editore ha inaspettatamente deciso di ospitare nel suo prezioso catalogo. Dico inaspettatamente perché, prima di finire tra le mani di Giancarlo Porcu (il migliore editor che un autore possa sperare di incontrare sulla propria strada), L’angelo esposto aveva collezionato una trafila di rifiuti davvero spaventosa. C’è voluto, insomma, un mucchio di tempo perché questo ostinato libriccino venisse alla luce, e il fatto che dal giorno della sua uscita a oggi praticamente nessuno si sia accorto di lui mi rende ancora più difficile il tentativo di dimenticarlo, come invece vorrei. Sento di dovergli ancora qualcosa, ecco, alla faccia di chi ha deciso di ignorarlo. A tutti quelli che invece vorranno avvicinarlo, propongo qui un assaggio. Partendo, didascalicamente, più o meno dall’inizio.

a.z.

funambolo schizzoL’uomo sul filo ondeggia a due passi dall’abisso come se niente fosse. Il cavo metallico disteso tra l’estremità più alta e il punto invisibile che tremula dalla parte opposta del ponte si flette sotto i suoi piedi nervosi deformando la linea retta in un lungo accenno di curva. È il segno tangibile del passaggio, una specie di firma fluida destinata a sparire sotto il peso di ogni movimento per poi ricomparire un attimo dopo, e via così, su e giù, su e giù, fino all’ultimo passo.
L’uomo sul filo autografa il cielo.
Molti metri più sotto, l’acqua del fiume continua la sua corsa noncurante e solenne. Un ammasso di strisce e cerchi e vortici abbozzati che trasportano tonnellate di rifiuti, rami secchi, lavatrici. La pioggia delle ultime settimane l’ha autorizzata a forzare gli argini e a invadere i sentieri che costeggiavano le sponde. Qualcuno pensa che se continua così esonderà, arrivando a coprire perfino le strade centrali. Un buon motivo per starsene a casa, al riparo, in attesa del sole. Eppure la gente è uscita lo stesso, ha percorso marciapiedi paludosi, chilometri di pozzanghere, fango, tombini scoperchiati. Una folla gigantesca, migliaia di occhi, palloncini, impermeabili, ombrelli, tutti raccolti nell’identico punto dell’universo, disposti a sfidare il diluvio pur di essere qui.
Non capita spesso di poter assistere a spettacoli del genere. I giornali ne hanno parlato a lungo, dal primo annuncio sono passati alcuni mesi, e da allora non hanno mai smesso di ricamare sull’evento aggiungendo ogni volta nuovi dettagli, sempre più assurdi, sempre più irreali.
Il più grande funambolo del mondo arriverà in città, per costruire la sua tela di ragno sopra le nostre teste sbalordite e indifese.
La verità è che nessuno sa chi sia, né da dove venga. Le informazioni meno imprecise raccontano di un vagabondo senza età, magro come un chiodo e più agile di un pesce rondine. Ha iniziato a far parlare di sé dopo l’impresa delle quattro torri, portata a termine in un paese lontano: due coppie di bastioni gemelli alti centinaia di metri che lui ha annodato fra loro con un unico lunghissimo cavo. Poi ci è balzato sopra, e ha cominciato a ballare il tip tap per la bellezza di cinquantatré minuti e dodici secondi. A partire da quel giorno il suo filo si è disteso sui cieli di mezzo mondo.
Se si escludono i pochi aiutanti che lo seguono dappertutto, una carnevalesca combriccola di buffi ragazzini, nessuno è mai riuscito ad avvicinarlo, a scambiare con lui più di quattro parole. Si fa chiamare Repulšky, ma il suo vero nome è un altro. In ogni caso queste otto lettere sono ancora oggi tutto ciò che resta di lui.
Naturalmente diventa il mio eroe fin da subito. Colleziono ritagli di giornale, fotografie, strisce di fumetti ispirate alle gesta più clamorose. Riesco perfino a procurarmi un rarissimo vinile in cui è immortalata la radiocronaca delle quattro torri, registrazione che riascolto di continuo imparando a memoria ogni passaggio. Decido abbastanza presto che da grande diventerò come lui.

Mio padre è un alto funzionario del Ministero, temuto e rispettato esponente di quel Partito che quindici anni più tardi verrà annientato grazie all’intervento di scandali legati alla finanza, al traffico d’armi, e ai festini a base di droga e minorenni con cui lo stato maggiore del governo, tra un decreto e l’altro, ama abbindolare la noia. Devastazione politica che lui, mio padre, non avrà comunque l’avventura di vivere in prima persona per via di un infarto che lo fulminerà appena un paio d’anni dopo il cosiddetto affaire Repulšky. Comunque, non saranno pochi, in seguito, a garantire che Vassilis Garbo con quel fango di squallore umano non aveva mai avuto niente a che fare. E poi i morti, si sa, è bene lasciarli stare.
In ogni caso se il più grande artista del momento ha deciso di prendere un aereo per conquistare la venerazione di questa città – e, per estensione, dell’intero Paese – lo si deve principalmente al mio amato (a questo punto venerato) genitore, che attraverso una macchinosa attività diplomatica è riuscito a organizzare l’evento, e con esso l’attesa, e con l’attesa un aumento esponenziale del prestigio del famoso Partito. Perché ormai il ballerino celeste non è più soltanto un semplice ed estroso saltimbanco, quanto un nuovo simbolo, un’icona, una bandiera umana che ha involontariamente depositato sull’immagine della leggerezza l’idea stessa della libertà. E la libertà, vera o presunta che sia, è un’arma micidiale, la più invincibile, l’unico baluardo in grado di mettere d’accordo tutti sostituendo lo scalpiccio dei pensieri con un frastornato e religioso silenzio.
Alla gente comune, ovvero a tutti gli ipnotizzati avventori della messa in scena, non importa granché sapere cosa sia veramente successo dietro le quinte; non si farà fatica a ipotizzare smisurati compensi, mazzette, squillo d’alto bordo, forse addirittura scambi di prigionieri tra nazioni. Lo spettatore ignaro si accontenterà di avere qualcosa da raccontare a mogli, amanti e generazioni a venire. I maneggi messi in atto dietro le quinte sono noti a una manciata di burattinai, tra i quali certo non figuro io, e tuttavia, come scoprirò solo molti anni più tardi – vale a dire oggi – sicuramente mio padre sì.

L’alba di quel ventidue giugno – giorno in cui per puro caso cade il mio compleanno – non promette niente di buono: l’estate ha appena fatto capolino sul calendario, i prati del parco sono rigogliosi già da un pezzo, ma la temperatura esterna fa capire che è autunno, dal cielo macchiato di nuvole insiste a crollare una pioggia d’argento. L’emozione non mi ha fatto chiudere occhio per tutta la notte e ora, avvolto in un ridicolo pigiama pieno di stelle e megattere, trascorro i primi minuti di questo settimo anniversario col naso incollato ai vetri della finestra della mia cameretta contemplando sgomento le spine d’acqua che schizzano in ogni direzione. Mio padre è già uscito, o forse non è mai rientrato, preferendo passare la notte in ufficio per sbrigare le ultime faccende organizzative. Nell’appartamento ci siamo soltanto io e la mamma, che sento fare la spola tra il bagno e la cucina in quel concerto di passi nervosi tipici di quando si sente legittimata a esternare una qualsiasi forma d’ansia. Quando poco dopo mi vede comparire già lavato, pettinato e maldestramente ingessato nel vestito blu delle grandi occasioni, interrompe di colpo la corsa per lanciarmi uno sguardo ostile:
– Sei già pronto, – sospira. – E dire che manca almeno un’ora.
– Possiamo uscire?
– La fai facile tu. Non vedi come sono conciata?

Dora Belasco è una donna di quarantatré anni, ha all’attivo un’infanzia dimenticata, un’adolescenza trascurabile e un matrimonio benedetto dai satiri della fortuna. Per quanto gradevole d’aspetto e provvista di decorosa sensibilità culturale, ai tempi il passaggio da figlia di grossisti ortofrutticoli a consorte di un promettente rampollo dell’alta borghesia era stato salutato come bizzarro quanto benvoluto, soprattutto, si capisce, dai commercianti di cui sopra, i quali, come ogni genitore che si rispetti, non avrebbero potuto immaginare di meglio per il futuro di una ragazza a cui, nella meno tetra delle ipotesi, sarebbe capitato in sposo uno scialbo geometra.

Ancora travestita da gheisha europea, stretta in quella vestaglia di seta bianca piena di fronzoli che la rendono tanto simile a una meringa, mia madre galleggia dall’alto del suo metro e ottanta valutando con apprensione lo sfrigolare degli elettroni che palleggiano fra le pupille del suo unico figlio.
– Be’, buon compleanno, – civetta dopo aver cercato troppo a lungo la parola chiave per distendere un simulacro di sorriso. E poi, con più calma: – Sei un ometto, ormai.
– Possiamo andare? – insisto impassibile.
– È ancora presto.
– Ma papà ci sta aspettando.
– Lo spettacolo inizia alle nove. Sai che ore sono?
Mi guardo intorno facendo finta di cercare un quadrante inesistente.
– Le sette e un quarto, – precisa lei senza lasciarmi il tempo di inventare assurdità.
– Ci sarà tanta gente, bisogna mettersi in fila.
Dora Belasco in Garbo incurva le sopracciglia lasciandosi scappare un’occhiata colma di malizia:
– Ma caro, perché ti preoccupi? A cosa pensi che serva il Palco d’onore?

Raggiungiamo papà mentre è alle prese con le ultime sequenze di sorrisi e stringimano. Alla sua destra il sindaco e poco indietro la lunga fila di assessori, consiglieri, giudici, collaboratori, Antonio Medina e Elias Lambreno in primis: i loro profili seri ed eleganti sono immortalati in un’ormai sbiadita foto ricordo. In tutto saranno una cinquantina di persone, la maggior parte delle quali sfoggiante abiti lustri, cappelli buffi e uniformi tirate a lucido, ma nessuno sembra prestare attenzione al filo già teso davanti ai loro nasi, quanto piuttosto alla visione dell’abnorme fiumana di teste che occupa ogni centimetro dello spazio intorno.
Portati a termine i saluti, mio padre ci fa cenno di venire avanti, e quando lo raggiungiamo non riesco a evitare di notare in lui sintomi di una strana tensione tradita dalla voce rotta e insolitamente bassa. Mi accarezza la testa strizzando l’occhio, sfiora con un bacio la guancia incipriata della mamma, prende posto. Ormai manca poco, e io non sto più nella pelle.

Su richiesta dell’ospite gli organizzatori hanno fatto in modo che il punto di partenza e quello d’arrivo risultino inavvicinabili per chiunque all’infuori di lui e dei suoi collaboratori. Ha bisogno di concentrazione e raccoglimento, in più probabilmente non prova nessun desiderio di scambiare parole con una massa informe di perfetti sconosciuti. Dipendesse da Repulšky tutto si svolgerebbe in mistica solitudine, ma col tempo si è rassegnato: ormai è famoso, passare inosservato sembra davvero improbabile. Gli spettatori, compresi i privilegiati che occupano il palco delle autorità, potranno assistere a distanza, giusto una quarantina di metri dalla pedana di lancio. Per non sentire il frastuono della folla il funambolo inserisce nelle orecchie due speciali tappi di gomma.

Il primo passo sul filo viene salutato da un’ovazione di applausi. Repulšky non si scompone, è una sfinge di piume. La gamba sinistra tasta il cavo senza fretta, prende le misure, calcola l’energia della spinta. Per decidere di sollevare anche l’altro ginocchio impiega alcuni secondi, ma sembrano un’eternità. Improvvisamente tutti decidono all’unisono di trattenere il respiro in gola e il vociare scomposto si zittisce cedendo il posto alle urla dell’acqua. Come inseguendo un preciso segnale, il fiume sembra gonfiarsi incalzato dalla pioggia sempre più forte. Qualcuno mormora che bisognerebbe rimandare, è da pazzi proseguire con un tempo del genere, tanto più che alla furia delle intemperie si è aggiunto il vento. Repulšky non si cura di nulla, ormai ha iniziato la corsa. Riesco a distinguere abbastanza bene i ciuffi impazziti della sua chioma biondo cenere.
Mia madre chiude la mano, avverto una ragnatela di dita che spingono contro i polsi. Alzo gli occhi, incontro il bellissimo ovale del suo volto, un profilo vacuo e ansioso.
Non possiamo ancora saperlo, ma tra poco succederà qualcosa che presto farà il giro del mondo diventando in una manciata di minuti la notizia di cui a partire da domani parleranno tutti i giornali. Fra i titoli degli articoli ci sarò anche io, più o meno sempre indicato con appellativi come Il piccolo graziato, L’angelo salvato, e così via.
Ma tutti, anche se non lo diranno mai, sapranno che in realtà sono, e sarò per sempre, il bambino che ha ucciso l’uomo del filo.

Di quei brevi istanti ricordo poco, quasi niente. Potrei descrivere nel dettaglio quello che succedeva un attimo prima del salto: le facce contrite delle persone che si spingono intorno, i colli flessi verso l’alto insieme alle tese dei cappelli, le fronti increspate dalle rughe. E poi il rumore del vento, l’odore salmastro dell’acqua, la visione dell’immenso ponte che unisce due sponde lontane come galassie. Repulšky che brandisce l’asta per tenersi in equilibrio – un bilanciere di nove metri sottile e flessuoso – decidendosi finalmente ad azzardare il terzo passo; il cavo che oscilla, i capelli del funambolo che si ribellano, svelettano, danzano baldanzosi e contenti. Potrei passare dieci notti di seguito a elencare particolari, ma il racconto a un certo punto si arresterebbe comunque. Perché di ciò che accadde dopo rimane pochissimo, immagini spezzate, suoni affievoliti dalla nebbia.
Parte della storia mi venne raccontata solo in seguito attraverso versioni piuttosto differenti, tutte comunque concordi sull’identico punto: più o meno quando l’uomo sul filo si trovava a metà strada del percorso, pronto a fermarsi per iniziare il consueto balletto grazie al quale da alcuni mesi aveva il mondo ai suoi piedi, proprio sul più bello un ragazzino era saltato sulla balaustra del ponte cominciando a imitare i movimenti del funambolo.
Quel ragazzino, naturalmente, ero io.

Fa parte dello spettacolo, avrà pensato qualcuno. Una trovata pubblicitaria, uno scherzo. Visto da lontano dovevo sembrare la copia in miniatura dell’uomo sul filo. Solo che al posto del filo adesso c’era una superficie di pietra argentata dalla pioggia, e al posto del bilanciere barcollavano due braccia bambine. C’è chi racconta che i miei occhi erano chiusi, e la pelle della mia faccia contratta in una smorfia di soddisfazione. Procedevo passo dopo passo lungo una traiettoria che non potevo vedere, così come era impossibile percepire i millimetri che mi separavano dall’abisso. Come ero arrivato fin lì? Una fuga cieca, una corsa a perdifiato? Oppure un percorso lento, schiacciato tra centinaia di corpi? Nemmeno mia madre – per non parare di mio padre, che in quel momento aveva altro a cui pensare – ha mai saputo rispondere a queste domande. Per quello che ricordava lei, si era accorta di cosa stesse accadendo solo dopo aver scoperto che le nostre mani non erano più unite l’una dentro l’altra. Poi aveva voltato gli occhi alla sua destra e io ero già lì, in bilico sul vuoto.
Un istante dopo stavo piombando di sotto.

Gli altri scampoli che ricordo con un po’ di chiarezza sono il gelo dell’acqua e il respiro che si spezza. Del volo, un crollo di oltre sessanta metri, niente. Le cronache giornalistiche dell’epoca riportano spesso la fiabesca immagine di un corpicino leggero simile a un pupazzo di gommapiuma che si abbandona al nulla.

Il silenzio della folla si trasforma dapprima in brusio incerto; poi, come risvegliato da un colpevole torpore, in urla allarmate che invocano aiuto.
L’uragano, ride.
Mia madre, sviene.
Le eminenze riunite sul palco d’onore saltano in piedi.
Repulšky, invece, isolato dall’universo grazie ai tappi di gomma, è tutto preso dal suo sgambettìo a mezz’aria, in un primo momento non sembra accorgersi di nulla. Danza sicuro sul filo ricurvo accompagnando i balzi con l’asta che oscilla da una parte all’altra.
Poi, prevedibilmente, la vanità con cui perfino un misantropo come lui è costretto a fare i conti gli fa spostare lo sguardo in direzione della folla. Solo a questo punto si rende conto che il pubblico è distratto, anzi in subbuglio: un coro di schiene che si agitano proiettando le braccia verso il fiume. Il funambolo orienta gli occhi di sotto, scruta l’abisso per qualche secondo, prova a convincersi che non c’è niente di strano.
Infine, purtroppo per lui, capisce.

Il bambino caduto sta soffocando sotto il peso dell’acqua che afferra ogni parte del suo corpo disarmato. È un mostro senza fine, un drago viscoso, furibondo: non vuole lasciarselo scappare per nessuna ragione al mondo. Gli stringe le caviglie, i polsi, il torace, lascia che il suo esofago si riempia di liquido salmastro, congela i suoni nelle orecchie. Non sente niente, il bambino, soltanto un costante ronzio di ghiaccio. L’uomo sul filo traffica nel cielo e intanto il suo doppio plana dentro voragini di fango nero.
Impossibile stabilire se il gesto del funambolo sia dettato da sincera compassione, o se invece si tratta di un meccanico impulso teatrale. Forse non lo sa nemmeno lui. Forse non ci pensa proprio, Repulšky, a quello che succederà nei prossimi secondi. Si affida con umiltà all’istinto.
Dall’alto del ponte, e dal basso delle sponde alberate che costeggiano il fiume, le centinaia di teste accorse per ammirare una sfida alle leggi gravitazionali si trovano inaspettatamente al cospetto della loro negazione: con uno scatto degli avambracci – nei giorni successivi alcuni testimoni accompagneranno la descrizione del gesto con l’aggettivo rabbioso – il funambolo si separa dall’asta, suo unico punto d’appoggio, che prende il volo e viene ingoiata dalle acque. Per alcuni istanti l’uomo resta così, sospeso nel mezzo del cavo a forma di sorriso sbilenco.
Poi, a ruota, si lancia anche lui.

Forse con l’aiuto dell’ipnosi potrei ricordare i nostri corpi che si incontrano dentro il gorgo. Scavare a fondo fra le immagini impigliate nelle iridi e ritrovare la fotografia dispersa che racchiude il contatto tra il bambino affondato e il funambolo fluttuante: le sue braccia da insetto che si avvinghiano a un ramoscello indifeso, i suoi occhi arrossati dallo sforzo che incrociano le mie palpebre chiuse, e poi i respiri, il fiato di Repulšky che si mescola al mio in un disperato tentativo di rianimazione. Ma non c’è stata nessuna ipnosi, nessuno scavo, e quella diapositiva diafana è ancora lì – qui – nascosta in qualche angolo oscuro dell’immaginazione. Di tanto in tanto riaffiora tra i sogni, si fa strada tagliando le ombre, ma è davvero impossibile dire cosa sia vero e cosa no.

Il funambolo intercetta il bambino nel fiume e riesce chissà come a condurlo verso la riva consegnandolo a mani sconosciute in attesa sulla sponda.
La corrente fa il resto.
Un attimo dopo l’uomo del filo si trasforma in un fantasma senza tomba.

Lo cercano per tre settimane prima di perdere ogni speranza. Il cielo, nel frattempo, si è calmato, le acque del fiume sono tornate al loro posto, e un sole pallido ha rimpiazzato l’oscurità della tempesta. Ma di lui, l’angelo Repulšky, nemmeno un segno.
In suo onore, l’anno successivo, viene eretto il piccolo monumento di bronzo che ancora oggi saluta i passanti dal centro del ponte.
La targhetta grigia posta alla base del capitello recita, laconicamente: In memoria di R., domatore del cielo.

Inutile aggiungere che non diventai mai un funambolo, né tanto meno un mediocre trapezista da circo. Mezzo assiderato e con lo stomaco pieno d’acqua da spurgare, mi ci vollero quattro giorni d’ospedale per riprendere le forze e tornare ad essere un ragazzino come tanti. L’angelo graziato venne dimenticato abbastanza in fretta, e identica sorte – se si esclude il monumento ad honorem – toccò a Repulšky. Fossi stato un adulto non me la sarei cavata così a buon mercato, ma ero solo un bambino, e i bambini, loro malgrado, godono di immunità pressoché illimitate.
Sono trascorsi molti anni dall’ultima volta in cui ho messo mano agli articoli di giornale dedicati a quella vicenda. Anche il vinile con la radiocronaca delle quattro torri dorme in mezzo alla polvere da chissà quanto. Le uniche tracce del passaggio di Repulšky nella mia vita hanno deciso di limitare la loro comparsa a incubi più o meno episodici, più o meno terribili.
Tutto il resto, in fondo, è un’altra storia.
Una storia che riguarda soltanto me.
Me, e la Signorina Enne.
O almeno questo è quanto mi hanno sempre fatto credere.

 

Ade Zeno, L’angelo esposto, Edizioni Il Maestrale, 2015

prova copertina bn