L’anarchico di cartone
un racconto di Bruno Fonzi

bruno fonziPubblichiamo in chiusura di 2014 un racconto dello scrittore e traduttore Bruno Fonzi (1914-1976), di cui quest’anno avremmo sperato di potere festeggiare maggiormente il centesimo anniversario. Il testo che presentiamo fu edito nel 1953 sulle pagine de “Il Mondo” e non ci risulta mai più ripubblicato.

L’anarchico di cartone

Tra i colleghi del personale civile dell’Ufficio lavori c’era un personaggio curioso, certo Piròli, che si dichiarava anarchico. Suoi numi erano Bresci, Kropotkin, Felice Orsini, e non c’era argomento che non gli desse scusa per un’invettiva al trono di Cesare o a quello di Pietro. Il fascismo, somma di tutte le nequizie dell’autorità organizzata, era il maggior bersaglio ai suoi strali, tanto più penetranti in quanto egli godeva del privilegio raro di non essere iscritto. La sua lunga anzianità gli aveva permesso fino allora di sfuggire a quell’obbligo, e, anche per le capacità eccezionali di disegnatore tecnico che lo facevano maestro a tutti noi, i superiori chiudevano un occhio. Piròli ne approfittava largamente parlando contro il fascio con una violenza e una ferocia come fosse sempre in procinto di sgozzare dal primo all’ultimo gerarca con un coltello da cucina, ciò che contrastava comicamente con la sua piccolissima statura, che invano cercava d’elevare calzando scarpe a tripla suola. Era d’altronde incapace di far male a una zanzara, e il suo anarchismo non era, in gran parte, che il risultato di una innocente mania scandalistica, cui dava sfogo anche per altro verso, eseguendo disegni pornografici, bellissimi, ai quali dedicava la stessa concentrata passione che metteva nelle sue tirate sovversive. Prediligeva le scene di massa, moltitudini di piccole figurine abbandonate ai carnasciali più sfrenati, aggrovigliate in atteggiamenti complicati e grotteschi, che disegnava con tratto netto e preciso, fino al particolare più minuto. Aveva così illustrato tutti i monumenti più famosi della letteratura galante, dal Satyricon a Justine, da Gamiani alle Memorie di Fanny Hill. Aveva un cassetto pieno di questi disegni, e nella nostra stanza era un continuo andirivieni di marescialli che venivano a vedere e a sbellicarsi.
Il più grande ammiratore di questa turpe arte del Piròli era il capo dell’ufficio, maggiore F., detto Spartaco, che a causa dei suoi modi plebei si diceva provenisse dalla bassaforza, ma non era vero. Era costui uomo gigantesco e corpulentissimo, che per i più futili motivi veniva colto da accessi di collera furibonda che gli spezzavano la voce e gli tingevano la faccia di viola, suscitando negli astanti la speranza, sempre delusa, di vederlo d’un tratto stramazzare colpito d’accidente. Al termine di questi formidabili furori Spartaco ricorreva a Piròli chiedendogli di mostrargli i “capolavori”, come li chiamava, il che questi faceva aprendo il cassetto e ritraendosi con l’aria di supremo disprezzo che caratterizzava tutti i suoi rapporti coi superiori, ma di cui Spartaco, data la differenza d’altezza, neanche s’accorgeva. Affondava le mani e gli occhi avidi in quei disegni, e a poco a poco la sua faccia, un momento prima contratta dall’ira, si distendeva e s’apriva ad un largo sorriso beato.
Un giorno, alla vigilia d’una festività fascista, Spartaco riunì il personale e comunicò in forma solenne che l’indomani il generale ispettore all’Arma sarebbe venuto dal ministero a ispezionare l’ufficio. Questa prospettiva sembrava metterlo in grande agitazione. Dopo aver impartito nel suo solito tono iracondo le disposizioni del caso ai dipendenti militari, si rivolse a noi, che ce ne stavamo in gruppetto in fondo a tutti. “Quanto al personale civile…” abbaiò, “tutti, dico tutti indistintamente, in camicia nera! Ci siamo capiti?”. E fissò due occhi feroci su Piròli “Altrimenti qualcuno salta, qui dentro!”.
Il mattino dopo Piròli tardò. Di già pensavamo che non sarebbe venuto, che si sarebbe dato malato, quando apparve, come un bolide attraversò la stanza, senza salutarci, senza neanche guardarci e andò a rifugiarsi dietro il suo tecnigrafo. Era in camicia nera!
Non parlò mai, mentre fingevamo di lavorare, in attesa di quel famoso generale; continuò ad ignorarci, ma, in preda a una sorta d’irrequieta giocondità, andava canticchiando tra sé la canzoncina dell’attentatore Passanante, una delle sue favorite:

Il povero Passanante
Eeeeeeera un cuoco
Per ammazzare il re
Ci mancò poco.

Il generale arrivò una mezz’ora dopo. Era molto giovane, tutto azzimato, con la caramella: il generale ministeriale. Spartaco gli saltellava attorno cercando di conferire alla propria mole un atteggiamento modesto e servizievole. Scattammo in piedi e facemmo il saluto, rimanendo poi sull’attenti, come prescritto, mentre il generale faceva di sì col capo con movimento meccanico, come quelle teste che fanno sempre di sì nelle vetrine dei farmacisti. Piròli rimase a braccio teso, come pietrificato, continuando a fissare il generale con una espressione fanatica. Senza giacca, con quella camicia nera lucidissima, una fascia che gli arrivava fin sotto le ascelle, e i calzoni neri lunghi, sembrava mascherato da squadrista del ’21. L’atmosfera divenne incresciosa; Spartaco tossicchiò imbarazzato, e, dopo inutili cenni per farlo desistere da quell’interminabile saluto, “Riposo, riposo”, bofonchiò con veleno, e afferratogli il braccio glielo abbassò quasi a forza, mentre circondandogli le spalle con gesto falsamente affettuoso, come presentandolo al generale, cominciava a parlare di “disegnatore abilissimo”, di “colonna dell’ufficio”, eccetera. Solo allora ci si accorse del disegno. Era un foglio abbastanza grande, con una cornice di bandierine tricolori; Piròli doveva averlo attaccato alla parete un attimo prima che entrasse il generale.
“Oh, oh, un disegno allegorico!” disse questi, facendo udire per la prima volta la sua voce da signorina, e s’accostò per osservarlo da vicino. “Oh, oh, un disegno allegorico!” echeggiò Spartaco, facendoglisi accanto con premura.
Fu un momento. Il generale ebbe un sussulto, e mancò poco gli cascasse la caramella; Spartaco emise un lamento strozzato. Entrambi volsero uno sguardo pieno di orrore su Piròli, il quale s’era nuovamente irrigidito nel saluto, con sul volto quell’espressione fanatica, quasi folle; poi, senza dir parola, si slanciarono fuori dalla stanza. Noialtri ci precipitammo a guardare. Era un disegno allegorico, infatti. Entro la cornice di bandiere era la figura dell’Italia con le torri in testa che s’appoggiava da un lato al duce e dall’altro al monarca. Ma osservando meglio le due figure laterali si scopriva ch’eran formate da un agglomerato, una concrezione, un intrico minutissimo di priapi e di conni.
Nei giorni che seguirono Piròli non ricomparve in ufficio; si venne poi a sapere ch’era stato impacchettato e spedito al confino.
Tempo fa, dal tabaccaio, sento un tale chiedere il “caserio”, denominazione della macchinetta spuntasigari ormai in disuso dall’epoca del ministero Pelloux, e incuriosito mi volgo a guardare quest’avventore così suranné: era proprio lui, quell’anarchico di cartone, con un’enorme cravatta nera a fiocco e un cappellaccio a staio.
Alle mie effusioni rispose in tono vago, quasi mi ricordasse appena, e quando gli domandati che ne pensava dei tempi che volgevano, fece una smorfia; ma animandosi d’un tratto, ammiccando verso un seminarista che al banco stava comprandosi dei Trabucos, mi tirò in disparte: “Devi venire a trovarmi”, mi sussurrò in tono misterioso. “Ho fatto i re magi…”.

(da “Il Mondo”, 30 maggio 1953, p. 8)