Ombre giapponesi
di Luca Martini

ombre giapponesiIn occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo Il tuo cuore è una scopa che potete trovare esclusivamente in formato ebook presso i principali rivenditori on line (ad esempio qui), pubblichiamo un racconto inedito di Luca Martini.

 

Ombre giapponesi 

La stanza era buia, illuminata soltanto da una lampada piccola, come quelle da campeggio che si vedono in mano ai nipoti di Paperino sul grande libro delle Giovani Marmotte.
Dal corridoio si vedevano delle ombre scure proiettate sul muro, figure tetre, un po’ allungate, che si spezzavano nell’angolo in cui il soffitto e la parete si incontrano, per affusolarsi minacciosamente verso la finestra.
Isaia stava nell’ingresso, proprio all’inizio del corridoio, e guardava con paura quella stanza e gli strani disegni neri che si formavano sui muri, cambiando forma a piacere, come una fiamma viva.
Stava fermo, il corpo più arretrato delle gambe, sotto la mano di suo padre, che si posava ora sulla sua spalla, ora sulla schiena, spingendolo a raddrizzarsi.
Guardava la donna con cui parlava suo padre come se non sapesse dove si trovasse o cosa ci facessero lì, in quel posto.
E forse era proprio così.
Sua madre parlava da lontano.
La voce si sentiva appena, sottile, e proveniva dalla cucina della casa.
Stava sistemando qualcosa, un dolce alle mandorle, un regalo che avevano portato a Gabriele.
Sistemava delle stoviglie e parlava, sovrapponendosi alla voce di suo padre, che nel frattempo si intrecciava con quella della donna.
E intanto Isaia, sempre più piccolo, stava in silenzio a fissare i loro occhi senza entusiasmo.
«Com’è cresciuto Isaia. Cavolo, l’ultima volta che l’ho visto avrà avuto tre anni. Camminavi appena, lo sai?»
Una mano tra i capelli, a scompigliare la riga sul lato destro che si era fatto con il pettine, dopo minuti di lavoro meticoloso.
«Cammino da quando ne ho uno di anni».
«Isaia…»
«No, ha ragione, forse sono io che mi confondo. Quanti anni hai adesso?»
Isaia si girò di lato, senza l’intenzione di dire nulla. Poi tornò a guardare avanti.
Fissava gli occhiali della donna, che si avvicinavano dilatando quelle pupille grigie.
«Allora? Non hai sentito?»
Sua madre era ricomparsa, e con la mano gli aveva fatto una carezza sulla nuca.
«Ne ho otto».
«Un ometto».
Lei rideva, ma più faceva così più Isaia non la sopportava, confondendo quelle parole ai commenti di tutti gli amici dei suoi genitori.
Sempre e soltanto le solite sciocchezze.
«Io mi chiamo Gabriella».
Isaia strabuzzò gli occhi, e si girò verso il padre.
«Anche lei?»
Lui scosse la testa.
«Gabriella, non Gabriele, suo marito si chiama Gabriele».
Che fantasia, pensò accennando un sorriso piccolo e innocuo.
«Venite di là, andiamo a vedere se è sveglio, sarà contento di vedervi».
Si misero in fila indiana e percorsero il corridoio che portava alla stanza da letto.
Lei, suo padre, sua madre e, in fondo, Isaia, ancora fermo sul posto.
«Allora? E muoviti, dai».
Sua madre non aveva più pazienza.
Isaia fece qualche passo, fissando le ombre che si stagliavano sui muri e che, avvicinandosi, diventavano sempre più grossolane e sgranate.
«Siete venuti proprio tutti, grazie, anche tu, piccolo».
Gabriele era sdraiato nel letto, una gamba appesa in alto a un ferro lucido, che sembrava tirare l’arto con forza. Stava sotto le coperte, un gesso che usciva e arrivava fino al collo.
«E la macchina?»
Suo padre si era seduto in pizzo al letto e ascoltava l’amico senza sapere dove guardarlo.
«Accartocciata contro il pilone. L’hanno già rottamata».
Percorse il corpo di Gabriele senza farsi notare, storcendo la bocca sui lividi.
«Ti fa molto male?»
«Mi riempiono di calmanti».
«Davvero?»
«Già, stupenda invenzione i farmaci antidolorifici non steroidei».
«Un fan dei fans…»
I grandi risero forte, mentre Isaia rimase fermo a guardare i due uomini che si scambiavano gesti d’intesa e le due donne che si battevano le mani sulle ginocchia, seguendo quelle parole.
«Che vuol dire?»
Gabriele prese il braccio di Isaia e lo avvicinò a sé.
«Era una battuta, io e tuo padre la facevamo sempre in ambulatorio, con i nostri pazienti. Fans è la sigla che sta per farmaci anti-infiammatori non steroidei, che sono delle medicine che fanno passare il dolore e non fanno male alla salute. Cioè, un po’ meno male…»
Isaia annuì, toccando la gamba in trazione.
«Che fai? Stai fermo».
Sua madre si affrettò ad allontanarlo dall’uomo ingessato.
«Non ti preoccupare, è in sicurezza, non può farmi niente».
Isaia guardò da vicino quella piccola lampada appoggiata sul comodino di Gabriele e seguì le ombre, faticando a capacitarsi di come una lampadina tanto piccola potesse dilatare i profili in quella maniera.
«Guarirai?»
La voce del bambino si era fatta d’un tratto più piccola della sua età.
«Beh, spero di sì, ci vorrà tempo, ma dovrei tornare a posto. E poi, sono forte, per fortuna, guarda che roba».
Gabriele piegò l’avambraccio destro come braccio di ferro, scoprendo un bicipite rotondo e definito, che si alzava imperiosamente, sfidando la pelle.
Isaia si avvicinò, aprendo la bocca per lo stupore.
«Tocca pure se vuoi».
Appoggiò le mani sopra il muscolo e seguì i movimenti di contrazione e di rilassamento, con un’ammirazione quasi incredula.
«Ma sembra Big Jim».
Gabriele rise forte, allontanando subito dopo una smorfia di dolore.
«Lascialo stare».
Sua padre lo tirò forte a sé, staccandolo dal braccio dell’uomo, rimasto fisso, con il muscolo gonfio, una collina aguzza e minacciosa.
Isaia guardò il papà in faccia, poi sulle spalle, infine scese fino alle scarpe di camoscio marrone.
«Che hai?»
Il bambino alzò le braccia e con entrambe le mani si mise a stringere il braccio destro del padre.
«Tu non hai i muscoli, come mai?»
L’uomo restò in silenzio, spostando lo sguardo sul muro, tra le ombre nere.
«Non siamo tutti uguali, Isaia. Tuo padre ha altre qualità».
Qualcosa si frappose tra le parole di Gabriele e l’imbarazzo del padre, un disagio che avvolse Isaia, che si trovava tra i due, a fare da parafulmine.
«Ma i muscoli sono belli, però».
Suo padre strinse gli occhi e li fece ballare tra i capelli di Isaia e il sorriso stanco di Gabriele, che sembrava d’un tratto sentirsi meglio. A fare da sfondo, un silenzio ancestrale, che pareva venire dalle profondità più lontane della terra.
«Venite con me, andiamo a tagliare la torta che avete portato, avanti».
Gabriella riempì il vuoto di parole che si era creato e li anticipò verso la cucina. Isaia si girò verso Gabriele, che gli sorrise e gli fece il gesto dei bicipiti, pizzicando la sua gioia. Lui sorrise e seguì le mani della madre, che lo accompagnò nel corridoio.
«Tu non vieni?»
«Resto a parlare con Gabriele, devo dirgli una cosa».
Isaia guardò suo padre mentre chiudeva la porta.
Cercò il suo sorriso, ma trovò soltanto un’aria seria, due occhi scavati e qualcosa che stava per partire.
Gabriella tagliò la torta, continuando a parlare in continuazione, come per coprire con la sua voce qualcosa di pericoloso che stava per scoppiare. Isaia fissava i sorrisi finti di sua madre e cercava di origliare senza farsi accorgere dalle due.
«Devo andare in bagno».
Sua madre si alzò per accompagnarlo.
«Faccio da solo, mamma, so dov’è».
Lei guardò Gabriella che fece di sì con la testa.
«Vai pure caro».
Passò davanti alla porta chiusa.
Non si sentiva niente.
Si mise a guardare dalla serratura.
Gli parve di vedere suo padre che muoveva la lampada e gesticolava con le dita, facendo forme strane.
Rimase a fissarli per un po’, cercando di ricordare.
L’aveva visto fare da qualche parte.
Di pomeriggio, una trasmissione televisiva, un programma per ragazzi.
Ombre giapponesi.
Ecco, si chiamavano così.
Vide suo padre intrecciare le mani, disegnare un uccello, mettere le dita a pistola.
Poi lo vide posare la lampada.
Lo vide alzarsi.
Lo vide prendere un cuscino.
Lo vide schiacciarlo sul viso di Gabriele.
Lo vide dibattersi.
Vide suo padre che lo tirava su.
Che appoggiava il cuscino di lato.
Vide Gabriele con gli occhi chiusi.
Vide suo padre che si girava di scatto verso la porta.
Isaia fece un salto all’indietro, il cuore il gola, le mani agitate.
Prese la porta del bagno, accese la luce e si chiuse dentro.
Rimase lì per un po’.
Rimase per parecchio tempo.
Si guardò allo specchio, si lavò le mani, si sciacquò il viso.
Non sapeva cosa fare.
Le mani gli tremavano forte, come se avesse freddo.
Trascorsero altri minuti.
«Stai bene Isaia?»
Sua madre gli aveva bussato.
«Sì, sto bene mamma».
«Esci che dobbiamo andare, dai, tuo padre deve fare una visita a un paziente».
Isaia si guardò allo specchio un’ultima volta, fece un’espressione raggelata e girò la chiave nella toppa.
«Quante volte ti ho detto di non chiuderti dentro, eh? Perché non mi dai mai ascolto?»
«Perché poi tu vuoi entrare lo stesso».
«Vai, vai, lingua lunga».
Vide che la porta della camera era chiusa.
«Dov’è papà?»
«È in cucina, dobbiamo andare».
«E Gabriele?»
«Aveva sonno, si è addormentato».
Isaia passò vicino alla camera, sfiorando la porta con le dita.
La luce filtrava dalla fessura in basso.
«Dorme con la luce accesa?»
Sua madre lo guardò con indifferenza, alzando le spalle.
«Ognuno dorme come vuole».
Continuò a fissare la porta, la maniglia, gli stipiti.
Raggiunse Gabriella in cucina.
Suo padre era seduto sulla sedia, la giacca indosso.
«Papà».
L’uomo si voltò, vide suo figlio e non gli sorrise.
«Dove ti eri cacciato? Andiamo, dai».
Si alzò di scatto, baciò Gabriella e si avvicinò alla porta d’ingresso, con una fretta che non gli riconobbe. Isaia lo guardò, poi passò su Gabriella, infine sulla madre.
Erano tutti d’accordo.
«Allora? Vieni? Cosa fai lì impalato? Oh, Isaia?»
Sua madre aveva alzato la voce ed era già uscita sul pianerottolo.
Gabriella gli era di fianco, non sapeva che fare, se spingerlo fuori o trattenerlo, e nel frattempo sorrideva come un’ebete.
Isaia la scrutò ancora, assecondando quell’atteggiamento tanto stupido.
Poi scattò all’indietro, piombando davanti alla porta di Gabriele.
«Dove vai?»
Gabriella gli urlò dietro.
Isaia impugnò la maniglia.
«Sta dormendo, fermati».
Suo padre gli corse incontro, per fermarlo.
Sentì il sangue corrergli alla testa.
Le tempie iniziarono a pulsare.
Abbassò la mano e spalancò la porta.
Le ombre sul muro erano fisse, piccole, deformi.
Un odore di marcio invadeva la stanza.
Nel letto una sagoma pesante, senza vita.
Una statua di gesso.

Gli andò vicino, lo scosse, prendendolo per le spalle.

«Cristo, Isaia, sei pazzo?»

Suo padre gli era piombato dietro e lo afferrò per un braccio, dandogli uno schiaffo sul sedere.
Fece un mugolio, un verso strozzato che stava tra il dolore e la tristezza.
«Cosa cazzo fai?»
Isaia si voltò e vide le ombre che prendevano vita sul muro.
Un movimento lento, la testa che ruota, Gabriele che si passa una mano sugli occhi.
«Scusalo, non so cosa gli sia preso».
«Non ti preoccupare, non stavo ancora dormendo».
«Non è vero, ma grazie per averlo detto. E ora chiedi subito scusa a Gabriele, subito».
Isaia aveva gli occhi bassi, rossi, pieni di pianto, le gote gonfie, pronte a scoppiare.
«Non importa dai».
«Chiedi subito scusa ho detto».
Il bambino si avvicinò al letto e toccò le lenzuola azzurre. Con gli occhi percorse il cotone e le cuciture della coperta.
«Scusami».
Un filo di voce, un piccolo spago pronto a spezzarsi.
Percorse il corridoio con lo sguardo fisso sul marmo frastagliato.
Salutò Gabriella senza alzare la testa e scese le scale in silenzio.
Erano tutti in silenzio.
Una volta in macchina rimase zitto ancora per qualche minuto.
Poi si tirò su, facendo forza con le mani attaccate al poggiatesta del guidatore.
«Papà».
«Cos’altro c’è?»
Il tono pesante.
Isaia infilò la testa tra i due sedili.
La madre guardava dall’altra parte, fuori, verso la campagna all’imbrunire.
«I muscoli a me non piacciono così tanto».
«Cosa c’entra adesso questa cosa? Tu la devi smettere, hai capito?»
Isaia si guardò nelle mani e rialzò lo sguardo, puntandolo sulla strada illuminata.
«Tu sai fare le ombre giapponesi?»
Il piccolo mimava un cane con le mani unite, gli occhi ancora rossi, la voce ancora minuta.
«Si chiamano ombre cinesi».
Il tono seccato.
«Sai fare le ombre cinesi?»
«Isaia, smettila».
Sua madre si era voltata verso di loro.
L’uomo le mise una mano sulla coscia, stringendola, come per tranquillizzarla.
«No, non le so fare, non le ho mai fatte».
«Ma io ti ho visto farle, prima, in camera da Gabriele».
Suo padre sospirò forte.
«Ci risiamo».
Diede un’occhiata alla moglie, che scuoteva la testa e abbassava lo sguardo.
«E poi ho anche visto che hai preso il cuscino in mano e…»
«Adesso la smetti, cazzo, hai capito? La pianti? Vuoi far piangere tua madre?»
Isaia voltò la testa e la vide che si passava le dita sulla faccia, trattenendosi.
Gli occhi dell’uomo luccicavano nello specchietto retrovisore.
«Tesoro, non fare così, vedrai che adesso risolviamo tutto».
Lei fece di sì con la testa, tirando su con il naso.
Il bambino si arrese e si accasciò all’indietro, ferito, spazzato via.
Si rannicchiò nel sedile.
Si fece minuscolo e assunse lo stesso colore del tessuto.
Lo stesso grigio anonimo, lo stesso tono fiacco, senza memoria.

 

Luca Martini, nato a Bologna nel 1971, ha pubblicato diversi libri tra i quali La geometria degli inganni e Le mani in faccia. Con il racconto Un comunista ha vinto il “Premio Arturo Loria 2008”, uscito per Marcos y Marcos nell’antologia Un comunista e altri racconti. Il suo ultimo romanzo è Il tuo cuore è una scopa ed è uscito per Antonio Tombolini Editore.

 

 

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La redazione di Atti impuri