Gli sguardi degli altri
di Ade Zeno

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Occupiamo con un nome lo spazio di due. Come cadaveri senza coscienza non conosciamo la natura di questo freddo orribile che ci paralizza il tempo nel sangue. Vegetiamo in silenzio, scaviamo orme immaginarie sulla superficie del pavimento; con quello che resta delle nostre dita tracciamo linee inesistenti nell’aria, inventiamo disegni invisibili, geometrie astratte. Due-quattro-sei-otto per due-quattro-sei-otto, lo spazio a misura di passo, ecco che i nostri piedi si incrociano, si fermano, ripartono, provano a inventare traiettorie nuove, illusioni di percorsi. Ecco che si fondono e diventano la stessa identica cosa, contare avanti e indietro, tentare calcoli inediti, senza sosta, così, ancora: enumerare a mente, registrare nella memoria ogni variazione di movimento, cercare il giusto sincrono tra gesto e respiro lasciando che l’aria ci passi addosso con disinvoltura, ecco, così: un passo, poi un altro, ancora.
Sono azioni macchinose, spostamenti titanici, da spaccare il fiato trasformandolo in gemiti e sudore. Due-quattro-sei-otto, è così che inganniamo l’attesa, ma forse è l’attesa a ingannare noi, ci truffa, si diverte, tenta in ogni modo di farci perdere il conto.
Nella penombra ottusa di questa stanza a volte ci riesce di distinguere bene una scritta tatuata sul muro da unghie che non ci appartengono, una parete di croste e bolle secche, dice: Conta i passi contali tutti – ce ne sono così tanti da tenere occupata una vita – contate i passi poi si torna indietro e ricominciamo d’accapo, contiamo senza pensare a quello che siamo, a quello che facciamo.
Geometri estremisti, consumiamo i giorni misurando le distanze. Non parliamo, stiamo zitti, ogni tanto ci incontriamo con gli occhi.
Le nostre cicatrici pulsano, è l’unica cosa che condividiamo. Quando uno si toglie la benda per medicare il taglio, l’altro si gira di spalle perché sa, ha capito, si autoesclude per discrezione. Non c’è più bisogno di dire niente, le nostre lacerazioni sono il mondo che ci è rimasto addosso. Spingono e parlano, quando evitiamo di pensarci pensano loro per noi, sono bocche incontenibili, mobili, plastiche, considerano il silenzio un nemico da uccidere. Ancora vive, ci mangiano un pezzo di carne per ogni giorno che passa. Nessuno dovrebbe saperlo, nessuno tranne noi dovrebbe vederlo.
(Abbiamo imparato a riconoscere l’odore. Non è vero che il marcio ha una puzza costante. Le nostre carni producono secrezioni molto diverse, l’una più acida e pungente, l’altra quasi di miele, morbida come una carezza all’inguine, tanto delicata che viene voglia di leccarla e portarsela dentro).
Di mattina presto e la sera tardi, poco dopo lo spegnimento delle luci, ci cambiamo le fasciature. Il primo che si muove è il primo che porterà a termine l’operazione. Non c’è un ordine preciso, lasciamo al caso il privilegio di guidarci.
Abbiamo terrore degli occhi che ci guardano.
Se ne stanno in agguato dietro le fenditure. Noi non vorremmo, non sappiamo perché lo fanno. Sono lì, dall’altra parte, hanno a disposizione un’infinità di pertugi sparsi ovunque.
Ci proteggiamo a vicenda, anche per questo facciamo a turno.
Il primo si toglie le bende e stacca i nuovi residui di carne morta, l’altro sta bene attento a fargli da scudo col corpo. Capita spesso, più volte al giorno, ma saranno state infinite le occasioni in cui l’hanno fatto senza lasciarsi scoprire. La prima volta che ce ne siamo accorti abbiamo pianto a lungo, solo lacrime, senza urlare, ma il dolore e l’angoscia, simili a una vertigine febbrile, sembravano non volersene andare. C’era un occhio appena sopra la lampadina, dietro a un foro scavato all’altezza dell’attacco elettrico. Era piccolissimo, difficile da distinguere dagli altri buchi intorno. Se non ci fosse stato quel colpo di tosse incontrollabile, forse non lo avremmo mai individuato. Allora abbiamo sentito un sussulto improvviso nelle vene, ci siamo abbracciati guardando verso l’alto. L’occhio ha continuato qualche istante, riuscivamo a scorgere la pupilla puntata in direzione dei nostri sfregi viola. Poi è fuggito con uno scatto lasciando il buco pieno di ombra invisibile. Alla fine lo abbiamo tappato con dell’argilla.
Da quel giorno la paura ci mangia le parole, saltiamo in piedi a ogni rumore, anche il più piccolo. Continuiamo ad amarci con stanchezza per un tacito accordo, senza sapere cosa siamo.
Certe volte la voce dei passi fuori rimbomba, un vagito capace di durare millenni. Sembra il prolungamento di altri suoni più familiari ma non meno perfidi, si mescola allo scricchiolare delle corde tese che sostengono i mobili. I due armadi, il tavolo, le sedie, la coppia di brande metalliche senza materassi: tutto è aggrappato a una ragnatela di cavi tesi. Se non ci fossero, se non esistessero le loro cime resistenti ancorate ai ganci dei muri, tutto il poco che possediamo scivolerebbe a un lato della stanza. La pendenza è ripida, scoscesa, perfino noi, talvolta, ci aiutiamo con le corde per passare dal lato più basso all’estremità opposta della camera. Siamo in bilico, consumiamo lo spazio gravitando in equilibrio precario.
Ognuno di noi vale per sé. Non sappiamo nulla delle ferite dell’altro, conosciamo i loro odori senza averne mai visto le forme. Viviamo di congetture impalpabili. È vero che ci vergogniamo di loro, forse nel nostro profondo speriamo perfino che riescano a divorarci del tutto regalandoci, prima o poi, una pace rassegnata. Un giorno o l’altro, lo sappiamo bene, qualcuno vorrà entrare qui per affondare delle dita di fuoco in questa pelle. Sarà terribile, ma non opporremo resistenza, il dolore non ci spaventa più come una volta, non quanto i loro occhi almeno, non quanto le palpebre di pietra che fissano senza parlare. I passi si avvicineranno, forse correndo, oppure piano, timidamente, con gesti accorti. Potremmo abbracciarci e sentirci più forti, ma durerebbe troppo poco e non servirebbe a niente. Vorranno guardare dietro le bende, da vicino: srotoleranno tutto per esaminare con cura. Potrebbero essere già qui, e in un istante averci resi sordi, muti e ciechi.
Stringiamo i nostri corpi nei nostri corpi, tratteniamo il respiro, proviamo a illuderci che si tratta di un sogno simile a molti altri, solo più forte.
Sogniamo delle pelli lisce che cominciano a crescerci attorno alle ossa, ai muscoli, rigenerandosi. E delle lenzuola fresche che ci accarezzano con la leggerezza di un soffio. E dell’acqua pulita. Non gli sguardi degli altri in attesa, non tutta questa paura terrosa, ma acqua fresca. Senza occhi disperanti che la inquinino, senza noi, senza corde ancorate ai muri.
Sogniamo di essere sogni terribili, oppure timidi incubi che altri stanno sognando per noi.