Una bella bambola
di Silvia Chiarle

Parra_Galileo spiega le sue teorie astronomiche a un monacoLa mia terra è la montagna. Il mare non mi appartiene.

Il vento sporco di sale, le vele bianche come la schiuma e questo blu incostante mi fanno impazzire. I fili dei miei pensieri sono sbattuti come cime sciolte, la mia testa beccheggia assieme alla nave. Questa nave. Un bestione massiccio che mi porta in terre che mi fanno paura. Mi attacco al parapetto e cerco di attenuare la nausea guardando verso l’orizzonte, dove il celeste si trasforma in grigio cupo. Lo scoramento si fa sempre più forte. Quando sento alle mie spalle un passo ritmico nel suo traballare, non mi giro. “Jamal”, mi chiama una voce gracchiante. Non sempre mi ricordo che questo è il mio nuovo nome, ogni volta ci metto troppo a girarmi. Strizzando gli occhi per il forte sole, mi trovo davanti Arlo, il cameriere zoppo e brusco della signora Bianca. Facendo tintinnare i campanelli attaccati alle maniche della sua buffa camicia, Arlo mi porge un plico di fogli, un calamaio e uno stilo d’osso. “La signora ti ordina di scrivere una storia”. Conclude la frase raschiandosi la gola, le sue labbra a forma di otto ondeggiano e la pipa che ha in bocca balla. “Che storia?” chiedo, mentre prendo in mano gli oggetti. La sagoma di Arlo si alza e si abbassa sullo sfondo del cielo al ritmo della nave. “La signora vuole che scrivi la tua storia. Vuole sapere come sei arrivato al Bordello dei Puri”

“E perché?”

“La signora è curiosa”.

Guardo sconsolato le pergamene, pensando che scrivere mi avrebbe fatto morire di mal di mare, e mi si stringono le viscere al pensiero di cosa devo scrivere. Ma non voglio disobbedire: il mio dolore è il piacere di Bianca, un piacere così intenso che finisce col diventare anche il mio. E questo finisce col portare nuovo dolore.

Sottocoperta, nella cabina, un piccolo specchio rotto mi fa compagnia. A volte mi osservo di sottecchi, per guardare la tonsura sulla mia testa: sarebbe già dovuta scomparire da mesi, ma Bianca mi costringe spesso a tagliare i capelli che ricrescono. Vuole che questa chiazza calva testimoni l’assurdità della mia vita e quindi, il crescere della sua curiosità. E sempre per la sua curiosità ora riprendo in mano la penna dopo mesi. Il tratto sulla pergamena è incerto, le dita si torcono rigide e poco convinte attorno allo stilo.

Ero un miniatore di talento, e perciò orgoglioso. All’Abbazia della Sacra, incastrata nella montagna, i vecchi monaci mi guardavano sottomessi, perché ero giovane ma ben più carismatico di loro. Un corpo secco e sottile, avviluppato in una tonaca sempre in ordine, pelle rosea: avrei potuto dare un’idea di fragilità, se non fosse stato per la mia bravura come miniatore, che mi trasmetteva sicurezza e, a tratti, prepotenza. Le mie mani e i miei occhi erano di marmo, come di marmo erano le idee che imponevo. La Sacra era un luogo di frati senza vocazione, inaciditi dagli insuccessi, oppure spaventati, indifferenti, troppo zelanti. A me bastava tingere di rosso i capilettera, e sentivo di essere eccezionale. Grifoni d’oro e catene si attorcigliavano attorno a T superbe, a S inarrestabili. Quel rosso ero io, era mio, era il colore della mia anima.

Andavo spesso in Città per conto dell’abate. Commissioni ridicole, come comprare barattoli di grasso per il cuoio o ceralacca per i dispacci. Ma quella Città di calce e legno levigato era anche il luogo del mio divertimento, un gioco che ogni umano, tranne me, avrebbe considerato sbagliato: rubavo. Rubavo le piume colorate dai banchi dei venditori. Amavo i loro colori e la loro morbidezza, farle girare vorticosamente fra le dita. Quando tornavo al monastero, le nascondevo dentro al materasso della mia cella, sotto le travi del pavimento, nelle intercapedini delle pareti. Nessuno al di fuori di me poteva capire la bellezza divina di quelle piume. Erano sublimi come le miniature, tanto che avrei voluto usarle per decorare i manoscritti.

“Verranno qui i figli del duca”, mi disse un giorno l’abate. “Sarai tu a far loro da precettore”. La tua cultura è immensa, Demetrio, pareva mi dicesse. La tua cultura è immensa e perfetta, è rossa come il minio, seducente come una piuma. In ogni parola a me rivolta sentivo vibrare una lode sottesa, e la mia vanità si innalzava come le torri della Sacra. Torri alte e strette, su cui questa vanità per me non era e non è peccato.

Un giorno, durante una lezione ai figli del duca, l’abate e il priore mi portarono nella mia cella. Avevano le fronti aggrottate allo spasimo, e già dentro di me ridevo delle loro espressioni, così lontane da qualunque bellezza. Ma una volta dentro la cella, la mia serenità venne meno: il materasso era squartato, le assi dell’impiantito scoperchiate. Decine di piume colorate erano sparse per terra. “La Regola”, era l’unica parola che riuscivo a comprendere. Avevo infranto la Regola: povertà assoluta, nessun monaco può possedere alcunché, men che mai piume. Oggetti frivoli, indegno, peccato, perdizione, la pena dovuta: “Vattene via”.

Il cielo non aveva nessun colore quella sera. Si lasciava mordere dalle torri della Sacra e rendeva più ansiosa la mia fuga. Correvo giù per la mulattiera dell’abbazia come una marionetta disarticolata, nella mia testa una domanda batteva a martello: “Dove vado?”. Abbandonavo la montagna, dove mi ero sempre sentito a casa. Non ricordo la strada che seguii, non mi fermai a chiedere aiuto all’altro monastero che sorgeva lì vicino. Bramivo come un cervo morente, cieco per le lacrime, rattrappito, mentre il mio saio si trasformava in una camicia di forza e smetteva di essere il simbolo del mio orgoglio.

Arrivai in Città a notte fonda, quando ormai in giro si possono fare solo brutti incontri, ma le guardie alle mura non mi fecero entrare: nella notte non ero un frate, ma un mendicante da tenere fuori. Quando il mattino dopo entrai, vagai per le strade come un fantasma infernale, schivando qualunque creatura respirasse, pazzo di paura per un mondo che avevo creduto innocuo, ma che in quel momento mi sembrava pronto a fare a pezzi solo me. Quando calò il sole, mi ero infine risolto a chiedere l’elemosina, almeno per trovare da mangiare. Entrai in un’osteria quasi senza accorgermene, e il fumo e la luce oleosa resero ancora più incerti i miei passi. Gli avventori trovarono divertente punzecchiarmi e versarmi sulle mani il vino. Continuavo a girare per i tavoli con la caparbietà degli accattoni, finché una mano mi afferrò al polso e mi trasse a sé. Ero stato arpionato da una donna dai folti capelli, tinti con il colore del fuoco, robusta, con strisce di muscoli molli ondeggianti dalle braccia e dalla pancia. Era molto appariscente, ma nessuno osava burlarsi di lei, anzi. I due uomini ai suoi lati parevano soggiogati. La donna mi prese per il mento, mi passò il pollice sulle guance, tastò il mio corpo. Non mi muovevo, terrorizzato. “Come sei carino. Delicato come un fiore”. Non capivo se scherzasse o dicesse sul serio. “Dimmi, ce l’hai un lavoro?”. Feci segno di no. La sua voce si fece carezzevole. “Vuoi lavorare per me? Farai tanti bei soldini”.

Mi portò con sé.

Entrammo in ciò che chiamò la sua casa, ma quella sera non notai la scritta sopra la porta, la vidi solo il mattino dopo. Se l’avessi vista subito, sarei scappato via. Il giorno dopo, la donna mi condusse in un’ampia camera occupata da un divanetto e da uno specchio. Chiamò dei nomi, battè le mani, e uno stuolo di ragazze in camicia da notte, con i capelli scarmigliati, accorse. “Vi ho portato qualcosa di speciale. Con questo piccolo fiore fra noi, tutti vorranno venire a trovarci”. Gli entusiasmi della signora vennero bruscamente interrotti dalle lamentele di una delle ragazze. “Ma è un maschio, a chi importa di lui?” “Ad altri maschi mia cara, maschi timidi che vogliono un lavoretto discreto e piacevole. O a donne avventurose”

“Ma padrona, è un monaco!”.

Per tutta risposta, la donna dai capelli di fuoco mi abbrancò la corda della veste. Opposi una disperata resistenza, ma quella riuscì a slegarmela e a strapparmi di dosso il saio. Mi accasciai a terra, nudo e piagnucolante. “Ora non più. Lavatelo, rendetelo presentabile. Vedrete se non è un fiorellino”. La padrona si allontanò in fretta, seguita da molte altre ragazze. Restarono solo una donna stanca e una giovane con occhi da vecchia. Riempirono d’acqua una grande tinozza di rame e mi ci immersero. Mentre la donna più anziana mi passava la spugna sui capelli, mi rivolse un sorriso dolce, un sorriso da madre triste. “Non avere paura”, mormorò. Poi aggiunse: “Dovrai trovarti un nome, se devi lavorare qui”. Io la guardavo inebetito, cercando quanto più calore potevo nei suoi occhi. “Come ti chiami?”, le chiesi. “Cocoà”, e portò meccanicamente una mano sulla pelle scura, quasi a giustificare quel nome.

Poco dopo, Cocoà portò nella stanza un grande baule, pieno di vestiti. Passammo ore davanti allo specchio per provarli. Lei cercava il vestito adatto a me, assorta come una bambina che veste una bambola; io invece mi scioglievo in lacrime. Infine mi ritrovai vestito di una leggera stola dorata, ma Cocoà non aveva finito: prese dei trucchi e mi fece sedere. Non appena mi riguardai allo specchio, vidi i miei occhi contornati da una spessa linea di bistro nero e il viso coperto da una polvere impalpabile. Cocoà cominciò a riporre i trucchi, ma all’improvviso mi accorsi di un barattolo di impiastro rosso che stava mettendo via. “Aspetta!”, esclamai, e lo affrerrai subito. Ipnotizzato, ci misi le dita dentro e osservai meravigliato quel rosso brillante. Ridendo, Cocoà toccò a sua volta la mistura e mi disegnò un piccola croce sopra la radice del naso. “Ecco il mio piccolo fraticello!”.

Dopo quel grossolano battesimo, trovai un nuovo nome: divenni Dionigi. Avevo forgiato Demetrio per entrare nel chiostro, era giusto che forgiassi qualcosa di nuovo per entrare nella perdizione. La mattina dopo, inebetito, con uno sguardo ormai impassibile per il trucco, uscii sulla soglia della casa per vedere se il mondo là fuori esisteva ancora, per assicurarmi di non essere preda di una stregoneria. Fu allora che notai l’insegna sopra alla porta: Bordello Dei Puri. Un eufemismo che allontanava i sensi di colpa dei clienti e li invogliava ad entrare.

Le donne avventurose e gli uomini timidi, come li aveva chiamati la padrona, erano più numerosi di quanto avrei mai immaginato. Piacevo, portavo soldi nelle casse, forse ero persino bravo. Le prime volte piangevo ancora, dopo che il cliente se ne era andato: Cocoà entrava nella mia stanza per consolarmi. Mi passava le mani fra i capelli, in silenzio, aspettando che finissi di singhiozzare. Usciva di corsa, richiamata dalla padrona.

Un giorno arrivò la signora Bianca. Il Bordello era in subbuglio, perché era molto ricca, una nobile piena di soldi e di gusti strani. La sua casa era leggendaria: dava personalmente il nome a tutti i suoi servi, li vestiva come menestrelli e pagliacci, non voleva ancelle attorno a sé, per poter essere l’unica donna al centro dell’attenzione. Quella volta mi truccarono più del solito, cercarono tuniche variopinte, perché potessi rispondere ai gusti di Bianca. Da quella volta, venne da me per mesi, pagando cifre esorbitanti per potermi tenere con sé tutto il giorno. Non si accontentava solo degli amplessi: voleva giocare con me. Si faceva portare le forbici e mi tagliava i capelli che ricrescevano sulla tonsura, mi colorava la faccia come un selvaggio, mi faceva leggere romanzi folli che comprava dagli antiquari. A volte fingeva di essere un gatto e pretendeva che facessi il topo: stringeva le mie dita fra i denti fino a farmele sanguinare. E io non sapevo sottrarmi a lei, al suo corpicino di ragazza che si crede una donna, al suo passo marziale e al suo sorriso scaltro. Non l’amavo, ma mi ero abituato a lei, le sue torture diventavano la mia malata normalità.

Dopo un anno, Cocoà cominciò a stare male. Venne buttata fuori dal Bordello non appena se ne accorsero: non potevano permettersi una prostituta malata che rovinasse la loro reputazione. Mentre la padrona la trascinava alla porta, mi attaccai alle falde della sua gonna, strillando come un bambino impazzito. “Ringrazia di essere un fiore! Non ti frusto solo per questo”, latrava la padrona. Cocoà passò la notte rannicchiata nell’immondizia; le portai di nascosto della minestra, curvo e farfugliante come un demente. La trovai morta di freddo la mattina dopo. Il funerale di Cocoà furono i miei balbettii sconnessi, mentre la cullavo: “Ma-ma… ma-ma…”.

Bianca si incapricciò di me al punto da comprarmi. Mi pagò a peso d’oro e mi portò nella sua casa assurda, piena di drappi vermigli e di specchi enormi. “Adesso devo trovarti un nome” disse non appena arrivammo. Prese a sfogliare libri, a scartabellare mappe di terre sconosciute, mormorando suoni a tratti rotondi, a tratti ronzanti. Infine proruppe in un: “Jamal!”, con un’espressione trionfante. “Non ti piace Jamal? Vuol dire bellezza, e tu sei bello come una bambola”. Cominciò a correre per il salone, spintonando qualunque servitore stesse passando. Era ubriaca di allegria, mentre i paggi che sfilavano accanto a lei  facevano tintinnare tristemente le campanelle delle loro livree. “Jamal! Jamal! Jamal! Vieni bambola mia, voglio giocare con te”, si mordeva il labbro e balzellava da un piede all’altro, impaziente, “Io ho sempre voglia di giocare”. Camuffarmi da topo e lanciarmi di corsa giù per gli scaloni divenne il suo più grande divertimento. Ero servile, accondiscendente, malleabile. Sono servile, accondiscendente, malleabile.

“Dobbiamo prendere una nave!” si mise a gridare un giorno Bianca, sventolando in aria un sacchetto di monete. Nella sua perenne voglia di giocare, aveva affittato una nave che ci avrebbe portati tutti oltre il mare. Uno stuolo di buffoni ad accompagnare le voglie di una ragazza verso nuove avventure. Bianca avrebbe visto gli uomini coi vestiti strani e gli animali incredibili che si diceva abitassero quelle terre. Era questo ciò che la interessava di più. “Dobbiamo prendere una nave! Dobbiamo prendere una nave!”. E mentre la servitù riempiva bauli di oggetti inutili, cominciava a sussurrare e a convincersi: “Dobbiamo prendere una nave, dobbiamo prendere una nave…”.

Ora la barca smette finalmente di rollare, il mare si è un po’ placato. Risalgo sul ponte per guardare il sole che cala, ma sono arrivato tardi. Ormai il cielo è scuro, tinto di rosa solo a ovest. La nave è nera, le sagome dei buffoni di Bianca sono marroni. Una voce capricciosa mi chiama: “Jamal!”. Mi volto e vedo arrivare lei, beffarda come sempre. Indossa una gonna di organza, ma sotto porta pantaloni da cavallerizzo e stivali. Fra le mani tiene un piccolo barattolino, e alla luce della sera, i suoi capelli biondi diventano grigi. “Hai finito di scrivere, Jamal?”.

Alzo gli occhi e guardo l’orizzonte, pensando di vedere già la linea delle terre lontane che mi fanno paura. “Non sono sicuro di avere scritto tutto”.

“Sbrigati Jamal, sono curiosa. Lo sai che io non voglio mai, mai aspettare”.

Osservo questa Bianca che dentro non è bianca, ma è nera come la paura, come l’umiliazione e come la perversione. O forse è rossa come me, è la storpiatura del miniatore che ero. Lei è pazza di cose belle, è pazza di piacere, è la persona che forse sarei voluto diventare se non fossi stato monaco, fiore, bambola, topo.

Lei sbuffa, poi trova subito un motivo per cui tornare allegra. Ci spostiamo alla luce di una lampada e mi mostra il barattolino. Bisbiglia eccitata: “Guarda cosa ho trovato nella stiva. Ha un colore bellissimo, non ne avevo mai visto uno così. Chissà chi ce l’ha portato, forse è il tesoro del capitano della nave”. Solleva il coperchio, immerge le dita dentro e se le passa sul petto. Poi se le sporca di nuovo e le passa sul mio. All’altezza del cuore rimane un’enorme macchia di rosso minio.

 

Silvia Chiarle è la vincitrice del Concorso letterario “Racconti impuri”, realizzato in collaborazione con gli Aperitivi informativi dell’InformaGiovani di Torino.