Su “il verri” n. 52 dedicato a Corrado Costa
di Gian Luca Picconi

Il nuovo fascicolo de «il verri» dedicato a Corrado Costa si compone di una vasta sezione di materiali d’autore che, in ordine cronologico, raccoglie testi scritti tra il 1954, quando Costa aveva circa 18 anni, e il 1980, accompagnati da tre pregevolissime opere grafiche, una delle quali campeggia in copertina; comprende poi un testo di Nanni Balestrini, amico e sodale di Costa; una sequenza di saggi di Gian Luca Picconi, Luigi Ballerini, Eugenio Gazzola, Marco Berisso, Milli Graffi, Alessandro Giammei, Giovanni Anceschi; una testimonianza, ricchissima, di Aldo Tagliaferri; due testi-saggi di Marco Giovenale, Andrea Inglese, e un’ulteriore testimonianza-presentazione di Giulia Niccolai. Inutile dire che molti degli autori ospitati in questo «verri» sono, come si può vedere dalla galleria di nomi citati, poeti in proprio: e mi pare sintomatico anche della qualità e della peculiarità della scrittura di Corrado Costa, che in questi anni sta andando incontro, almeno in certi ambiti, a un primitivo e doveroso tentativo di canonizzazione.

I materiali d’autore rendono disponibili oggetti di studio da lungo tempo difficilissimi da reperire; e li montano poi in un percorso che consente di operare all’interno della traiettoria autoriale di Corrado Costa una opportuna storicizzazione. È senz’altro di particolare interesse il testo teatrale inedito, per lo meno in versione cartacea, giacché su internet una pregevole edizione era stata allestita da Giuseppe Caliceti, dal titolo La bambina perduta nel Carnevale, del 1954: mostra in fondo un Costa legato a schemi tutto sommato già in qualche modo laforguiani e palazzeschiani, e in qualche modo carico di umori già patafisici. Dopo, «il verri» si sviluppa anche come un viaggio attraverso le sedi istituzionali ideologiche e poetologiche in cui Costa ha esercitato la sua via alla testualità, diventando perciò anche una carrellata attraverso le riviste più significative dagli anni ’60 agli anni ’80; attraverso questa sezione si può anche disegnare un percorso tra sedi, dediche ed epigrafi, che ci mostra un Costa vicino a Antonio Porta e Nanni Balestrini, Giorgio Celli e ovviamente, più di tutti, Adriano Spatola; e poi Emilio Villa, Giambattista Vicari. «il verri» pubblica infatti Colombella del Sud, poesia di cui si presentano anche materiali inediti, Pier Paolo Pasolini, l’auleta esibizionista, saggio-stroncatura su Pasolini e Prove per una Messa in italiano, apparsi su «malebolge»; Ripetibile e Abitiamogli la casa, apparso su «Nuova corrente»; Entorse: guerra e morte, apparso su «il Caffè»; Anche il Ciclope canta il canto nono, apparso su «Cervo Volante» e qui impreziosito dalla traduzione di Paul Vangelisti. Sul versante dell’opera grafica Alessandro Giammei presenta poi una serie di Equazioni a colori, pubblicando gli excerpta di un libro d’artista inedito; e c’è poi il recupero di Western Mode Retro, una magnifica sequenza di vignette apparsa su «Alter Alter» nel 1977, accompagnata da un saggio di Giovanni Anceschi che focalizza con grande efficacia cosa ci sia in comune tra esperienza della scrittura ed esperienza della poesia visuale, e cioè l’ossessione per “disvelare cosa c’è dietro”. È uno degli elementi di maggior rilievo e interesse di questo fascicolo de «il verri», la capacità di interpretare e approfondire il dialogo tra opera grafica e scrittura in Costa.

Tra i saggi, Luigi Ballerini opera l’importante tentativo di ricucire contemporaneamente l’opera di Costa alla tradizione della letteratura italiana e alla tradizione dell’avanguardia, mostrandocelo su una via isolata condivisa da Giulia Niccolai, Balestrini e l’ultimo Pagliarani; Eugenio Gazzola illustra un aspetto inedito ed estremamente interessante di Costa, il dialogo tra l’uomo di legge e l’uomo di lettere, pubblicando poi in appendice un testo inedito che presto uscirà per l’editore Diabasis e mettendo in luce l’interrelazione stretta tra le due figure, che Costa, com’è noto, scindeva («Corrado Costa sono due fratelli»). Milli Graffi fa i conti con Corrado Costa proprio così come si deve, storicizzandone il percorso e distinguendone con estrema chiarezza i due periodi della scrittura, desumendone da ultimo conclusioni che hanno accenti di novità nel panorama critico sul poeta; Alessandro Giammei attraverso un’analisi della produzione dei libri d’artista mostra un Costa capace in qualche modo di scomparire entro la sua stessa opera, di raggiungere la fine o il retro della parola; Aldo Tagliaferri rievoca sapidamente una vacanza in Libia nel 1971 con uno spaccato sulla biografia dell’autore capace però di illuminarne anche l’opera; Marco Giovenale mostra cosa Costa ha in comune con le post-avanguardie europee e in cosa ha addirittura una valenza seminale: indicando la sua appartenenza a una postpoesia che rinuncia a quello che Giovenale chiama efficacemente il «vincolo di necessità» del testo modernista; Andrea Inglese, commentando The complete films, ci spiega l’opera di Costa come un esercizio di sparizione, di distruzione del soggetto. Giulia Niccolai, infine, sottolinea come il «vero tocco» di Corrado Costa si riconosca in un “genere di dettagli scrupoloso e pignolo in un contesto paradossale (patafisico?)”.

Ho tralasciato finora volutamente il corposo saggio di Marco Berisso, una testimonianza esemplare di come la filologia, se impiegata con grande acume e intelligenza, possa davvero gettare una luce potentissima, a partire da un singolo oggetto, su tutta l’opera di un autore, e spiegarlo e chiarirlo, senza esaurirlo. Berisso, attraverso un’analisi in corpore vili delle carte di Pseudobaudelaire, in cui si possono anche leggere vari materiali preparatori della lirica che avrà poi titolo Dayenu e alcune lettere di notevole interesse, coglie alcuni elementi cruciali del progetto di scrittura di Costa, il quale aveva in progetto un vero e proprio macrotesto poetico, che doveva intitolarsi Il diserede; ma questo macrotesto non vedrà mai la pubblicazione, probabilmente anche per le mutate condizioni della poetica dell’autore.

Il saggio di Berisso è una rara dimostrazione in presa diretta, in atto, dell’irrinunciabilità del lavoro filologico, grazie al quale si evidenziano elementi talora rilevati dalla critica ma qui mostrati nella loro più aperta evidenza: la periodizzazione duplice, che scinde nettamente la fase di Pseudobaudelaire da quella successiva inaugurata da Le nostre posizioni; e quello che potremmo definire un progetto di abbandono del “libro di poesia”, inteso come macrotesto. Infatti, un vero e proprio libro di poesia novecentesco, con tutte le sue belle sezioni, dotato di segnali di inizio e di fine, di una progressione del senso attraverso isotopie che disegnano quasi un percorso narrativo, in Costa non ci sarà mai. (Anzi, le isotopie e le frequentissime riprese testuali sembrano orchestrate per smentire e smontare il libro stesso).

Da questo numero di «il verri» emerge quindi qualcosa di nuovo, per quanto riguarda l’immagine dell’autore. Anzitutto la produzione di Costa appare in qualche modo spartita in due periodi fasi: una sotto l’insegna di Balestrini e Porta, maggiormente vicino ai Novissimi, in cui la sua poetica potrebbe essere definita, così come appare, tra menzioni della Shoah e caos della ripetizione lessicale, come tragica, secondo la definizione che di tragico aveva dato Sanguineti nel 1964; e una successiva, sotto l’insegna dell’amicizia con Emilio Villa e Adriano Spatola, in cui, con certa forzatura potremmo individuare una sorta di Costa comico. Se Colombella del Sud e altri testi raccolti in Pseudobaudelaire mostrano un Costa tragico, così evidente (si pensi che protagonista di Colombella è nientemeno che Lily Tofler, che Peter Weiss ritrarrà l’anno dopo in L’istruttoria), il Costa successivo, così pieno di paradossi e calembours, fin dai titoli (Le nostre posizioni pare indicare a un tempo posizioni ideologiche e sessuali), a confronto con questo, non può che considerarsi comico. Certo il paradosso è un territorio esplorato da altri poeti oltre a Costa, anche poeti dalla testualità pienamente inscritta nel modernismo, come Caproni, per esempio; ma la peculiarità di Costa è che la logica del paradosso su cui si organizzano le sue liriche è quella dei paradossi costruiti sull’autoreferenzialità, come il paradosso del mentitore: in cui l’opera nega se stessa. Si può dire dunque e innanzitutto che «il verri» fornisce una più compiuta storicizzazione dell’opera di Costa, seppure tentativi in questo senso erano già stati compiuti da Milli Graffi e Aldo Tagliaferri.

In secondo luogo emerge dal fascicolo un tentativo di comprendere la divisione segnata dalle opere grafiche in rapporto a quelle di parola. Si può sintetizzare questo tentativo attraverso due citazioni: una da Nanni Balestrini: «ALL’INIZIO C’è la scrittura»; una da Milli Graffi: «la mia tesi è che Costa sia sempre fondamentalmente rimasto un poeta della parola». Credo non si potesse dire meglio: anche quando si dedica all’opera grafica, Costa situa sempre il suo lavoro nella frattura tra, come diceva Foucault di Magritte, rappresentazione e referenza, e in questo senso davvero non c’è opera visuale di Costa che non presupponga anteriormente l’esercizio della nominazione.

Emerge infine questa idea dell’abbandono di quell’istituto modernista pienamente novecentesco che è il libro di poesia, il macrotesto poetico; in questo senso, si potrebbe dire che questo abbandono si inquadra in un più generale tentativo di Costa di indebolimento della consistenza macrotestuale della dimensione dell’opera, a tutti i livelli, cui si fa correlativo un tentativo di indebolimento della figura dell’autore. Mi pare, questo della destituzione e dell’indebolimento congiunto di autore e opera, un nodo fondamentale su cui Costa ci sollecita a riflettere.

Si potrebbe allora dire che questo Costa, tutto intento a mostrarci il retro e il dentro dell’opera, a iscrivere l’opera dentro una logica da cui, per parafrasare Spatola, è impossibile uscire, che è la logica del paradosso, sta diventando un autore forte della letteratura suo malgrado. L’impegno di Costa era a dissipare il suo talento e sperperarlo, e a cancellarsi e parodizzarsi, come autore. In ciò per fortuna il progetto di scrittura, o per lo meno quello che a me appare essere tale, viene almeno in parte tradito, proprio nel momento in cui viene tràdito come progetto costiano, e disatteso, da questo fascicolo.

Vorrei concludere con due ultime notazioni. Devo dire che è difficile non guardare una foto o ascoltare la voce di Costa senza pensare a quanto doveva essere simpatico quell’uomo. Ovviamente non avendolo conosciuto di persona non ho alcuna ragione scientifica o empirica per esprimermi così: sicché mi rendo conto che la mia impressione è necessariamente sovradeterminata. In questo senso, si potrebbe riscrivere la teoria del nome e della funzione d’autore di Foucault tenendo conto di un ulteriore elemento: i nomi d’autore sono sì significanti vuoti implicati in costellazioni di senso, quelle che Ernesto Laclau chiama «catene equivalenziali»; ma perché entrino in un canone letterario devono essere anche investiti da forze, passioni, affetti: ecco, a voler riscrivere la teoria del nome d’autore bisognerebbe tener conto non solo di nomi e funzioni d’autore ma anche di questi affetti che si accentrano sui nomi per forza di sovradeterminazione. Parafrasando Costa, «Se si scrive Corrado Costa, non è detto che sarà Corrado Costa come autore»; affinché lo sia ci vuole questa dimensione d’affetto cui facevo riferimento poc’anzi. La fortuna di un autore è legata all’affetto sovradeterminato che i lettori ripongono in lui, magari prima ancora di averlo letto; e in questo senso questo numero del «verri» è un atto d’amore o di affetto che vuole contribuire a solidificare la figura autoriale di Corrado Costa: un atto d’amore che sarebbe stato impossibile senza l’aiuto di quell’altro ente propagatore d’amore che è la biblioteca Panizzi, con gli impagabili Maurizio Festanti e Chiara Panizzi, cui deve andare un sentito ringraziamento: se possiamo amare Costa, è anche grazie a loro.

Nota al testo

Questo testo corrisponde in parte a quello utilizzato da Picconi per la presentazione della rivista che si è tenuta lo scorso 25 ottobre presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. L’autore, correttamente, non si sofferma sul proprio saggio incluso nel fascicolo e intitolato Tigrità contro tigre: sondaggi su Corrado Costa e gli animali…  Ecco l‘indice completo del volume

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