Marco Candida, Il ricordo di Daniel
di Giacomo Maria Prati

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“Ringraziando il Cielo le allucinazioni non lo assalgono

quando guarda i programmi alla televisione

forse perché i programmni alla televisione

sono già allucinazioni”

Marco Candida

 

Oltre i generi verso la narrazione pura
nel romanzo
Il ricordo di Daniel dello scrittore Marco Candida

di Giacomo Maria Prati

 

Conosco e apprezzo Marco Candida da molti anni e mi ha sempre stupito come viva la sua attività di scrittore. Per lui scrivere romanzi e racconti è come portare avanti una missione spirituale. Ci vedo la stessa dedizione del monaco che nel silenzio e nella semplicità smuove e solleva colossali montagne metafisiche pregando e zappando nell’orto. Marco non è uno scrittore “alla moda”, non firma petizioni, non partecipa o fonda associazioni culturali, non si impegna civilmente, non sostiene con intransigenza idee più o meno popolari. Marco scrive. Marco non si immedesima mai completamente con il suo esserci, perché la sua mente vive su due binari, guizza su due parallele che si incontrano, perché la sua geometria non è euclidea. Mentre gli parli ti accorgi quasi fisicamente del “sussurro”, come lui lo chiama, che si porta appresso e che incessabile risuona e dal quale sgorga fertilmente la sua poderosa narrazione. Anche il suo ultimo romanzo, Il ricordo di Daniel, dimostra una maturità e una forza spirituale e psicologica notevole. È facile leggerlo ma è pure un libro spietato, che “ti mette alla prova”, che non lascia scampo alla tua mente e tende ad assorbirti completamente. La storia è semplice e neppure nuovissima: il giovane protagonista ha un incidente in automobile e resta in coma per qualche settimana. Al risveglio non ricorda nulla di quello che famigliari, fidanzate e amici gli raccontano di lui stesso e della sua precedente vita. Non svelo null’altro per non togliere gusto a una lettura non priva di “colpi di scena” improvvisi, tensione e scenari inquietanti a cui associo istintivamente due altri “casi” importanti: Goodbye Lenin (2003) film di Wolfang Becker, e il classico ma intramontabile  Enrico IV di Pirandello. La forza di questo romanzo sta però anche nel suo “reggersi in piedi da solo” nonostante dei possibili confronti così impegnativi. Nessuna imitazione, nessun manierismo: Marco scrive con asciuttezza e con una lingua pulitissima, antiretorica, precisissima e rigorosissima che coniuga felicemente in una nuova zona franca accessibilità e ricercatezza lessicale e sintattica mantenendo la stessa altezza di livello tipica dei capolavori classici nell’affrontare temi universali. Se infatti uno dei connotati costanti della buona letteratura è la sintesi fra singolarità e novità della narrazione e l’interpretazione di dimensioni semantiche never ending e ritornanti, insieme alla compresenza di una certa “ambiguità strutturale” data da una tensione interna fra più baricentri, tutti questi connotati li ritroviamo di default nell’opera di Marco. Oltre a ciò il nostro autore sembra dilatare elasticamente i contorni convenzionali del concetto di romanzo perché il suo racconto veicola sempre anche un sapore filosofico, quasi trattatistico, mixato abilmente con un intenso senso filmico del ritmo e della scenografia di contesto. Il ricordo di Daniel è strutturato come una sequenza di sceneggiatura ancora in fase di montaggio. È il primo romanzo che abbia mai letto del tutto privo di centro di risoluzione ma tutto sostanziato da un progress di oscillazione fra due poli: il tema della dissolvenza dell’identità che ci deriva dall’altrui percezione (spesso sartrianamente infernale) e il tema della fatica/voglia di costruire una propria “identità minima” quale spazio abitabile fra letto, frigo, tv e fidanzata. Lentamente ma inesorabilmente, fra cronache lucidissime con dati spaziotemporali assai precisi, e improvvise visioni surreali, l’autore ci guida per mano per prendere coscienza del fatto che la questione dell’identità precaria e da rimettere in discussione e riconquistare continuamente non è tema per “anime belle” o per esteti più o meno decadenti ma è condizione generale e quasi strutturale del vivere. Con gli occhi di Daniel, anzi del “suo ricordo” che è il vero protagonista del romanzo, capiamo meglio come “ricordare diventi ricordare di ricordare” e come “le cose nella mente sono liquide (…) il pensiero non sia altro che delirio dalla realtà ma le cose solide, consistenti, reali non sono forse fatte tutte quante di luce?”. Stupefacente è infine la sua capacità di evocazione della verosimiglianza nel descrivere l’indescrivibile cioè l’emergere improvviso ma progressivo di allucinazioni olistiche nella percezione di Daniel. “Ci sono coccinelle attorno al collo della donna che sostiene di essere sua madre. Poi naturalmente c’è la luce nei loro sguardi. Quando le persone a tavola si mettono a ridere per qualcosa che ha detto Sara o forse Barbara, Daniel vuole quasi mettersi a urlare. Non sa dove guardare. Lancia occhiate brevissime a tutto…”. L’ampiezza di questa potenza di narrazione e la vasta e intrigante ambiguità dello scenario semantico evocato mi porta a pensare alla Coscienza di Zeno dove analogamente troviamo compiacimento borghese e tensioni nichiliste, surrealtà quale condizione di vita e cupio dissolvi. Marco è un Italo Svevo del 2013 quindi più spietato ma dotato nel contempo di più spirito di adattamento e di sopravvivenza, più raffinato e sornione. Uno Svevo dopo Nietzsche, fra il mito autogestito e domestico dell’“uomo pulce” e il virus dell’inquietudine da Übermensch: “Infatti lavorando si sta dimenticando di quel se stesso che non ricorda più chi è se stesso in favore di un nuovo se stesso che pensa a lavorare e basta. Per cercare di trovar se stesso adesso deve prima ritrovare quel se stesso che stava cercando se stesso e a volte stravolto per il lavoro non ha nemmeno voglia di fare più questa ricerca. Vuole solo tornare a casa, mangiare qualcosa con Sara, mettersi davanti alla televisione e addormentarsi”.