Quello che resta
di Ade Zeno

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Passarono alcuni giorni, difficile immaginare quanti, forse settimane o addirittura mesi, la computazione del tempo non è mai stata il mio forte. Di sicuro non successe da un momento all’altro, questo lo so, perché anche l’addio ha le sue leggi, i suoi principî ergonomici, e abbandoni come il nostro, lo avrebbe capito anche un cane, richiedevano punti d’appoggio – sia pure precari e vacillanti – fondati per l’appunto sul tempo, o meglio sulla sua sospensione, come se tutto quello che eravamo stati fino ad allora necessitasse di un arresto in cui a fermarsi non dovevano essere tanto due persone grossomodo consenzienti, quanto i loro gesti, i loro stessi respiri, o ancor di più gli sguardi che per circa nove anni non avevano quasi mai smesso di scambiarsi l’una dentro l’altro, e viceversa. Esiste una letteratura per tutto, le coppie sgretolate non fanno eccezione, anzi, si può dire che quello degli amori logori goda di popolarità che rasentano l’inflazione; eppure un discorso del genere vale soprattutto per chi in simili bufere ha sbracciato almeno mezza volta, mentre gli ingenui – o per usare un eufemismo dotto: i neofiti – come me (il me di allora, s’intende) devono rassegnarsi a sperimentare il dolore del distacco come se fosse il Primo Della Storia Universale, cioè a dire l’unico, per poi osservarlo dal di dentro convinti che sciagure simili possano trovare senso solo se esaminate da un punto di vista assoluto. Ebbene, nei primi giorni che seguirono alla rottura con Cisca io, bisogna ammetterlo, mi trastullavo (non senza una sciatta forma di autocompiacimento, va bene) proprio con quell’illusorio senso d’assolutezza, o se si preferisce di esclusività, che magari non sarebbe servito a sedare le fitte al midollo, ma autorizzando a considerarmi unico nella disgrazia avrebbe quanto meno consegnato alla prospettiva della solitudine un retrogusto elegante, raffinato, quindi in una certa misura consolatorio. Perché è appunto alla consolazione, al suo edulcorato miraggio, che si affidano come ultima spiaggia le anime disperate, e io, superfluo sottolinearlo, ormai ero diventato né più né meno una di esse.
Ho parlato di consenso, e non intendo tornare sui miei passi, ma sostenere che il litigio definitivo con Cisca avesse preso le mosse da presupposti per così dire bilaterali nasconderebbe un’imperdonabile menzogna, poiché in effetti la volontà, o meglio il desiderio, di troncare per sempre il rapporto non ebbe origine dalla pur infantile coscienza del sottoscritto, ma anzi scaturì senza appello solo e soltanto dalle turbe emotive dell’unico essere al mondo che avessi mai amato (di più: venerato), dettaglio che giocoforza pone già di per sé in evidenza un sostanziale squilibrio fra le parti. Fu dunque a partire da quella discussione che ebbe inizio una verosimilmente lunga sequela di giorni malinconici in cui, denudandosi a mano a mano le ore, l’appartamento che per tanti anni avevo spartito con un corpo tanto voluto mi appariva sempre più vuoto, desolato, perfino corrotto nella sua stessa chimica: pareti, mobili, soffitti, suppellettili, soprattutto il letto ormai troppo largo per accogliere una sola presenza (la mia) sembravano decisi a piegarsi in geometrie penosamente sbilenche, se non addirittura molli, alimentando in coro un senso di sfascio imminente, come se si fossero alleati per organizzare i contorni di un abisso, i preamboli di un crollo. Su consiglio degli amici avevo chiesto e ottenuto ferie anticipate dal lavoro, una pausa che a dire di tutti mi avrebbe giovato, e che invece pensai bene di sperperare dedicandola a interminabili soste tra guanciali sudati, lenzuola in disordine, e gelidi naufragi nella vasca da bagno. Quasi per miracolo riuscii a evitare di affondare nei consueti rifugi degli infelici, vale a dire bottiglie, pasticche e via dicendo, il che tuttavia non contribuì in alcun modo ad allontanare mancanza di lucidità, propositi nefasti, e perdita completa di autocontrollo. In parole povere, prima dell’incidente (chiamiamolo così) che di lì a poco avrebbe imposto uno scandaloso cambio di rotta, ero a tre passi dalla deviazione mentale.
Poi, imprevedibilmente, mi cadde l’indice della mano destra, e solo allora le cose ripresero a correre (meglio: a passeggiare) per il verso giusto, o se non proprio giusto almeno diverso, il che tutto sommato è lo stesso.
Si trattò di un cedimento dolce, sul momento neanche me ne accorsi, ma a prescindere da ogni considerazione sull’anomalia di quella scissione fra muscoli scheletro e carne, all’istante della resa dei conti mi parvero subito cruciali almeno due aspetti: primo, la totale assenza di dolore; secondo, una quasi altrettanto miracolosa mancanza di tracce ematiche. Sulla superficie ormai fredda dell’acqua (ero alle prese con l’ennesimo bagno nella vasca) galleggiavano come improbabili rimasugli di mercurocromo poche malinconiche placche scure, mentre la massa inerte del dito fluttuava senza meta all’altezza dell’ombelico. Paralizzato in una calma ipnotica, seguivo i suoi maldestri spostamenti da sottomarino in avaria mentre il gelo iniziava a insinuarsi nelle ossa sotto forma di formicolio e la vista si appannava. Non ero spaventato, soltanto sorpreso, forse addirittura sbalordito: il mio indice destro aveva appena deciso di disancorarsi da me e io provavo semplicemente a chiedermi perché. Venni anche colto dal sospetto di aver commesso un atto sconsiderato in preda a deliri rimossi, ma sul bordo della vasca non stazionavano oggetti adatti allo scopo, sempre che si ammetta come assunto incontestabile l’impossibilità di procurarsi mutilazioni significative tramite spazzole, spugne o vecchi tubetti di shampoo. Stabilii quasi subito che il dito se n’era andato via così, diciamo di sua iniziativa, senza inutili piagnistei e spargimenti di sangue, evidentemente troppo estenuato per continuare a seguirmi. Doveva essere stata una decisione poco meditata, abbastanza istintiva, se è vero – ed è vero – che prima di allora non avevo mai sospettato l’esistenza di simili progetti all’orizzonte: scafoidi, metacarpi, falangi eccetera avevano sempre vantato discreta salute, come per altro il resto del corpo (i fisiologici dolori lombari da sedentario appesantito non contano). Valeva comunque la pena arrendersi all’evidenza e capire almeno cosa farne, di quel pezzo di me ormai avviato alla decomposizione.
Il primo pensiero fu quello di uscire dall’acqua, asciugare quanto andava asciugato, e organizzare una sia pur minima forma di smaltimento rituale. Sia chiaro, le due parole (smaltimento, rituale) non sono state scelte a caso, e nemmeno riemergono oggi dopo una seria riflessione a posteriori; al contrario, mi parvero fin dal primo momento le uniche possibili, le sole in grado di cogliere il senso intimo di un distacco che di sicuro non desideravo, e altrettanto certamente non avevo preventivato. In fondo, malgrado i discutibili effluvi di superbia che si dimenano perfino nei tipi come me, non mi era (non mi è) affatto estranea la consapevolezza di appartenere a quel genere di antropomorfo privo di talento e grandi ambizioni, ivi compresa la meno innocua fra tutte, ossia la pretesa di sapersi intelligenti e virtuosi, entrambe qualità che prevedono perlomeno una discreta conoscenza delle parole e, naturalmente, dei significati che con prepotenza le vincolano, e ciò sia archiviato come prova di assoluta buona fede. In breve, sapevo di dover in qualche modo buttare via (smaltire, appunto) il dito fuggiasco, ma allo stesso tempo la liberazione avrebbe meritato almeno una parvenza liturgica in grado di incoraggiare, o favorire, l’elaborazione del lutto, un lutto minimo, siamo d’accordo, diciamo un funerale in sordina, e tuttavia che male poteva aver fatto il mio indice destro da non dover rivendicare il diritto a un decoroso congedo?
No, ancora una volta devo correggere il tiro: nelle ore che seguirono alla separazione si può dire che il mio cervello fosse diviso in due fazioni: l’una, quella più arresa e meno disposta all’arte del combattimento, avrebbe venduto la propria (la mia) madre pur di lasciarsi tutto dietro con una scrollata di spalle. La seconda, più innaturale ma comunque risoluta, impugnava con arroganza l’urgenza di vendette esemplari. Difficile dire a quali e quanti risultati sarei arrivato se l’uno o l’altro schieramento avesse preso il sopravvento, le indoli ignave sposano soluzioni di comodo, quindi scelsi di sistemare il dito in un angolo del balcone. In questo modo, riflettei, avrei evitato sia l’eccesso di un funerale aristocratico (sepoltura ai giardini pubblici? Cremazione sui fornelli privati e successiva dispersione nel fiume?), sia la volgare umiliazione dell’abbandono in un cassonetto qualsiasi. Adagiarlo lì, proprio vicino al vaso in cui allora insistevano a crescere tre germogli di avocado, mi parve un compromesso accettabile.
Trascorsi i primi giorni quasi senza staccare lo sguardo dai vetri, completamente sedotto dal terrore (dalla speranza) di assistere in diretta alle varie fasi di putrescenza, lo spettacolo della materia che gloriosamente si sfalda per rituffarsi nel nulla: dopotutto un cadavere è quanto di più vivo esista sulla faccia della terra, l’unica dimostrazione tangibile del nostro essere soltanto passanti, turisti elementari, oggetti effimeri proiettati verso le ben più concrete sostanze del degrado. D’altra parte tutte le dissoluzioni, per essere ritenute tali, richiedono obbrobriosi gradi di pazienza, ogni fine obbedisce a tempistiche soggettive, non è affatto detto che il periodo di disgregazione di un dito debba per forza corrispondere a quello, poniamo, di un’agonia sentimentale, anzi, ma questo lo compresi soltanto in seguito. In buona sostanza, lo spettacolo del mio indice destro esposto alle intemperie (o piuttosto all’insolenza delle spade solari, visto che la pioggia latitava da almeno un mese) risultò sulle prime tanto deludente da spingermi a trascurarlo, e assorbito com’ero dagli effluvi della tristezza amorosa sarei perfino arrivato a dimenticarmene se a un certo punto non fossero provvidenzialmente intervenuti certi sensi di colpa nei confronti delle suddette piantine d’avocado, a loro volta abbandonate al proprio destino da troppo tempo, senza nemmeno mezza misera innaffiata.
Dei tre germogli, come potei verificare una volta uscito fuori brandendo lo spruzzino gonfio d’acqua, ne era rimasto solo uno, il quale spuntava dal manto di terra secca con aria affranta e stremata, ma tenacemente deciso a ostentare il virile orgoglio dei sopravvissuti. Lo stupore di scoprirlo ancora vegeto, aggrappato agli orli di un abisso sempre più vicino, mi commosse a tal punto che dovetti faticare per trattenere qualche lacrima, quindi l’emozione si tradusse in sorriso, e subito dopo nel gesto di far scattare la levetta dell’erogatore. Fu allora, mentre alcune piccole nuvole d’acqua cominciavano a vaporizzarsi nell’aria, che mi riaccorsi del dito: ecco, non era bastata una rozza dimenticanza a interrompere il suo funerale, quel rito di congedo che pensavo di aver arrestato semplicemente evitando di pensarci; no, aveva continuato a procedere anche senza di me, o meglio malgrado me, e adesso, come un invitato alla cerimonia in colpevole ritardo, avrei potuto assistere soltanto alle fasi terminali. Scalato di qualche centimetro rispetto alla posizione di partenza (chi lo aveva condotto fin lì? Il vento, gli insetti? Invisibili e pietosi necrofori?), il cadavere dell’indice languiva annerito in una zona del balcone che forse un giorno avrebbe accolto ombre a forma di foglia tropicale (col senno di poi, la risposta è no).
Restai a vegliarlo per la bellezza di cinquantasei giorni, assentandomi da quel capezzale a cielo aperto solo in caso di estrema necessità (l’espletazione dei bisogni fisiologici, per esempio), deciso a visitare insieme a lui i surreali confini dell’abbandono. D’inverno sarebbe stato tutto molto più complicato, ma erano i primi giorni di luglio e per passare la notte fuori bastarono una coperta e qualche cuscino. Rinunciai alle disperate immersioni nella vasca da bagno, ai pomeriggi in eterna contemplazione del soffitto, e perfino alle crisi di pianto che scoppiavano ogni qual volta il pensiero di Cisca mi crollava addosso. Concentrai tutte le attenzioni sul corpo putrescente del dito: sulla pelle che andava via via mummificandosi e ritirandosi per lasciar posto al grigiore delle ossa, sulla mezzaluna dell’unghia ormai costellata di minuscoli fori, sulle sottilissime fibre muscolari che spuntavano alla base della falange oscillando a ogni fiato d’aria come code di girini sedati.
L’alba del cinquantasettesimo giorno fu salutata dall’arrivo di una pioggia fresca e sottile, che nel giro di poche ore fece eccessivi proseliti mutando in temporale, il quale presto si trasformò in alluvione. Marcio e infreddolito, fui costretto a un ritiro strategico che immaginavo provvisorio, ma le previsioni – così come il computo del tempo, l’ho già detto – non sono il mio forte, e per ben due settimane i cieli della città si dedicarono ininterrottamente a inaudite manifestazioni pluviali. Le strade grondavano fiumi d’acqua e fanghiglia, mentre i tombini scoperchiati rigurgitavano tonnellate di rifiuti melmosi. Tornai a frequentare il sonno, le lenzuola umide, i guanciali desertificati, ma il freddo assorbito durante le ultime ore di veglia aveva già ammorbato ossa e sangue nutrendo i germi di una febbre violenta pronta a contagiarmi di sogni talmente scuri da lacerare il respiro. Ebbi così modo di sognare tutto il sognabile, immobilizzato da muscoli troppo deboli e da incubi eccessivamente spaventosi, e nei sogni c’ero io, e c’erano ragni che uscivano dai buchi, e c’era la mia casa d’infanzia svuotata, e c’erano gli anni di scuola, e i primi spelacchiati amori, e i gatti, e i libri mai letti, e le pareti ammuffite degli uffici in cui avevo lavorato, e c’era mio padre, e c’era mia madre, e il terrore di morire senza nemmeno mezza vita da ricordare, e naturalmente c’era Cisca, il nostro amore distrutto, finito, la definitiva discussione che aveva sancito l’esordio dell’ultimo incomprensibile salto in direzione del nulla.
Quando finalmente la febbre se ne andò, mi alzai dal letto, tirai un respiro talmente lungo da scottare i polmoni, e mi affacciai sul balcone. Ero ossessionato dall’idea di scoprire, di vedere, una volta per tutte, cosa fosse rimasto di me.

 

Racconto apparso su Atti impuri Vol. 4