Il volto del dissesto
di Marco Candida

AlessandriaLa serranda è abbassata. E’ una rete a maglie quadrate, sembra, dice Maria accanto a me, una calza a rete di donna perfettamente tesa. E’ di colore nero. Dietro la serranda c’è una tela cerata verde scuro, manca pochissimo perché sia un verde speranza. La tela copre la vetrina in tutta la sua ampiezza, è impossibile vedere cos’è rimasto all’interno. La vetrata non c’è più. Sopra la vetrina l’insegna del negozio è divelta. E’ rimasta solo una griglia di metallo dorata, chiazzata di nero qua e là. Maria e io rimaniamo per qualche momento ad osservare il panno impermeabile. In alcuni punti luccica – il silicone o la gomma che lo rivestono e lo rendono impermeabile, se si guarda con attenzione, riflette le ombre delle cose –, in altri punti, invece, è piena di polvere, sbracalata. Questo, mi dice Maria, è stato il Bar Aquila. Siamo in Piazza della Libertà. Sono le undici del mattino. Ci troviamo sotto i portici. Alle nostre spalle una carovana di nuvole si insegue nel cielo color catarro di Alessandria. L’aria è fredda. Adesso l’Aquila, come mi spiega Maria, si trasferisce. Maria indica un cartello – è un foglio di carta a quadretti scritto alla bell’e meglio con un pennarello nero – “Ci trasferiamo in Via De’ Martiri”. A me viene da pensare, forse un po’ stupidamente, che ci deve essere una valenza simbolica molto più grande di quel che sembra nel trasloco del Bar Aquila da Piazza della Libertà. Mi viene da pensarlo anche in Corso Roma davanti alla vetrina del Crazy Games – la sala giochi, con le slot machines. Penso: fine di ogni crazy games qui ad Alessandria, non è più possibile. Fine dei giochi. In Via Milano hanno tirato giù anche Le mascherine. Con Maria, Renata, Toni, Frank io che sono di Tortona ci sono stato a prendere solo un paio di aperitivi – e ricordo Toni aver chiesto qualcosa a proposito di come ci considerassimo e io rispondere scioccamente “Napoleone Bonaparte” e lui replicare “Perché non una caccoletta? Mai nessuno che si consideri una caccoletta”, ricordo Maria alzarsi seccata, trovare una scusa, sganciarsi, forse la mia risposta non doveva esserle piaciuta. Lo spritz alle mascherine era buono – l’avevo preso col Campari anche se lo preferisco con l’Aperol, e però anche col Campari mi era risultato gustoso. Adesso sul vetro incrostato di sporcizia ci sono solo fogli di giornale, grigi, dilavati, appiccicati con riccioli di scotch, fanno proprio una cattiva impressione. Giù le mascherine, mi viene in mente osservando i fogli di giornale, che vuol dire “Basta con le finzioni”, non sono più possibili. Ha chiuso One Way. Hanno tirato giù Maroccoy. Via Milano. Via San Lorenzo. Corso Roma. In ogni via c’è un negozio con le saracinesche abbassate, le luci spente, le vetrate dei negozi schizzate di malta, atre, pulverulente. Maria e io schiacciamo i nasi contro le vetrine, vogliamo vedere gli effetti del dissesto, entrare il più possibile dentro questa parola, darle una fisionomia. Dentro il negozio Immagine di Via San Lorenzo notiamo una latta ridotta a nudo metallo, schiacciata e squartata. E’ gialla con scritte rosse. Una controporta buttata sul pavimento con un foro largo mezzo palmo nel pannello superiore, con i bordi contornati di rete arricciata. Un tavolo scorticato e grigiastro, sopra ci sono assi, martelli, un cacciavite, c’è una bottiglia di Lysoform. Sullo sfondo di un ex negozio di abbigliamento c’è una fila di bustini da donna, me li fa notare Maria, e ci sono un paio di manichini buttati a terra, a faccia in giù. Uno è senza il braccio destro. Il braccio è finito in un angolo del locale. Sta vicino a quattro metri circa di quelle che sembrano reggette a propilene per imballi. C’è anche un tubo giallo, ritorto, della lunghezza di circa 15 centimetri. Frammenti di un oggetto fatto di polistirolo espanso, probabilmente un contenitore. Maria prende appunti. Io scatto fotografie di ogni negozio andato in rovina. Dopo un po’ Maria si stanca di scrivere. E’ uno spettacolo che non fa certo venire voglia di proseguire. Ci sediamo su una panca di pietra davanti a un altro negozio fallito. La vetrina è coperta da una carta da imballo marrone su tutta la superficie. Non ci sono più insegne o scritte. Stiamo così, dopo aver passeggiato per un’ora tra le vetrine, con le gambe indolenzite. Io indosso un giubbottino di pelle nera, lucido, assai aderente, un paio di jeans senza cintura, mi cascano un po’. Ho i capelli troppo lunghi. Per effetto del vento alcune ciocche di capelli mi schiaffeggiano la faccia in continuazione. Maria indossa un bomberino, ha i capelli corti, a caschetto, sono un po’ grassi, non pulitissimi, gli occhi sono cerchiati di nero, Maria non deve dormire molto la notte. Ci rendiamo improvvisamente conto, mentre stiamo seduti, che la vetrata del negozio dissestato davanti a noi ci riconsegna la nostra immagine e quella delle persone indaffarate nel loro andirivieni nella via principale della città di Alessandria.