Le regole della sconfitta
di Ade Zeno

old-telephoneUn tizio qualche tempo fa mi ha raccontato che è colpa di Cossiga se non puoi più farti chiamare sul numero di una cabina qualsiasi. Leggi contro il terrorismo o cose del genere, anni di piombo brigate rosse Aldo Moro, che se ci pensi adesso fa quasi ridere, l’idea di fermare le bombe e gli aerei impazziti, la fantasia di creare problemi a degli assassini bloccando il telefono pubblico di una qualunque via Michele Coppino. No, a dire il vero non è che mi faccia proprio sghignare. Voglio dire, non ora, in questo momento. Se per esempio chiamasse qualcuno, la voce di un uomo o di una vecchia, magari di qualche bambino minorato che si diverte a fare scherzi sparando numeri a caso. Ecco, in quel caso io sarei prontissimo, ci scommetto l’anima, senza esitare prenderei in mano la cornetta, così, e tossicchierei un: «Sì, sono io, dimmi.», come in certi film americani. Mi sentirei più al sicuro con una voce dentro, anche se è un’idiozia, lo so, perché una voce non ti salva la vita neanche nelle favolette, mai. Comunque niente, niente di niente, nemmeno una macchina in giro o un faro in lontananza o una bici persa negli abissi della sera. Tutto solo, qui, col freddo porco addosso e le scarpe bagnate e la vescica che spinge. Qui, come un deficiente, ad aspettare, mentre Gabu e Osmo e Follina magari se la godono da qualche parte prendendomi per il culo. Da non crederci. La solita figura da dissociato. Sta’ fermo dove sei, eh ?, non ti muovere per nessun cristo di motivo, la situazione è tesa, hai capito ?, roba da lasciarci le piume, non so se mi spiego, ha detto Follina, quel porco bestia che chissà perché continuo a dargli retta. Noi facciamo il giro di perlustrazione attorno all’isolato, tu sei la sentinella, il palo, una specie di gioco, mettiamola così, come quando eravamo pischelli e c’erano le guardie e i ladri e bisognava stare vigili, solo che stasera si gioca a sangue e devi tenere a portata di mano il coltello, se arrivano quei figli di vacca urla forte e pianta più colpi che puoi, sputa fuori i polmoni e noi arriviamo di corsa, così mi ha detto Follina, fai la guardia e l’assassino, non è questione di essere sbirri o ladri, ma solo morti di fame pieni di odio da smaltire a calci e coltellate di ruggine contro altri morti di fame con lfidentico vizio.
Ma è passata un’ora, ormai, un’ora lunghissima con Gabu e Osmo e Follina ingoiati dalle pieghe lerce dei palazzi senza fine che circondano tutto. Noi torniamo fra massimo venti minuti, il tempo di cercare bene, capito?
Magari è davvero una presa per il culo e quei tre laidi sono in qualche angolo più in là, seduti a terra rollando erba e ridono di me.
Qui dentro, nella cabina rossa – l’unica cosa illuminata del mondo perché l’ultimo lampione dell’isolato l’hanno sfasciato qualche giorno fa a bottigliate – qui dentro fa meno freddo. Ho le mani gelide. E anche la faccia. E i piedi zuppi. Ho gelido tutto, ecco, anche il piloro, se è per questo.
Silenzio, mi sembra di sentire delle voci. Non sono lontane, cento metri, forse qualcosa di più. I tre coglioni, eccoli che tornano, vedo le loro ombre molli, questa volta mi sentono. Si avvicinano. Conto, fra il buio spesso conto cercando di distinguere i loro corpi: eccone uno e un altro, lì, avanzano decisi sui loro anfibi nazisti, convinti come guerrieri, uno e un altro e non ci vedo bene, appaiono e scompaiono, paiono fantasmi, uno, due, tre, poi un altro e un altro ancora e altri due dietro, eccoli, ora, venti trenta metri da qui, merda puttana, Follina un paio di palle, questi sono gli altri, e sono un putiferio, mica tre stronzi così, ci sono tutti, la banda al completo, e mi hanno visto, sicuro, l’unico scemo suicida nell’unico posto illuminato del mondo.
Manca poco. Se il telefono squillasse per davvero, ecco, ora, adesso, se abbaiasse così all’improvviso sarei pronto terribilmente pronto a rispondere: «Sì, sono io. Dimmi.», e forse dall’altra parte sentirei un Follina sghignante ululare: «Ma dimmi cosa, scemo! Era tutto uno scherzo, ti sei cagato sotto, eh?», e io gli griderei di andare a farsi fottere, qui non si è cagato sotto nessuno, cazzone, proprio nessuno, e tirerei un calcio forte sulla porta a vetro per far sentire la rabbia che mi brucia, ma sarei lì lì per ridere anch’io, perché a sentirsi salvi c’è solo da ridere e lo sa il diavolo quanto vorrei poterlo fare.
Questa truppa di nazi che si avvicina. Avranno spranghe e coltelli, io ho in tasca qualcosa che assomiglia più a un temperino da mettere nell’astuccio insieme a gomma e pennarelli. Io che non ho mai neanche tirato mezzo pugno. Figurarsi ferire a morte qualcuno. Dovrei correre, ma mi raggiungerebbero in un attimo, ho le gambe che tremano.
Vaffanculo a Follina a Osmo e a Gabu e alle loro madri, ai padri, alle nonne! E in culo anche Cossiga.
Conto di nuovo i nazi, ora li distinguo bene, la luce della cabina brilla su tutti i loro nove volti da cani neri.
All’improvviso uno dice:
«Sei della banda di Follina, tu?»
Tremo ancora un po’, respiro forte, forte, riempio i polmoni all’infinito ripassando mentalmente le regole della sconfitta. E alla fine rispondo, attento, preciso, pronto:
«Sono io, sì. Dimmi.»