Le prove del discorso
di Marco Candida

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Un giorno gli apostoli Natanaele, Filippo e Iacopo scoprono che il loro Maestro Gesù sta facendo le prove di uno dei suoi discorsi nella casa di Simon Pietro.

Si trovano nel villaggio di Nahum sulle rive nord-occidentali del lago di Gennesaret. Stanno ritornando da una passeggiata sulle sponde del lago. Il sole cala all’orizzonte prendendo via via sfumature arancione. Sanguina sul cielo turchese. Il cielo e il sole sembrano avere i colori della tunica e del mantello dell’apostolo Filippo.

I tre apostoli passeggiano lungo le rive del lago osservando i pescatori pescare, e gli agricoltori usar pressoi, macine per il grano e le donne trasportare piatti fatti di basalto. Chiacchierano per lo più riposandosi il corpo e la mente lasciandosi soprattutto andare a fantasie, divertimenti.

Iacopo in particolare prende a raccontare a Natanaele e Filippo la storia dell’uomo e della donna che si devono esser accorti per primi dell’esistenza della morte. Lo fa soltanto scherzando un poco. Come dev’essere stato accorgersi di un evento come quello per la prima volta? Il primo uomo e la prima donna hanno fatto progetti di vita eterna oppure si sono accorti presto, proprio come tutti quanti gli altri, che nulla a questo mondo dura per sempre?

“Forse, – dice Filippo mentre si aggiusta una ciocca dei capelli paricollo – osservando le foglie che crescono sui rami degli alberi a primavera quel primo uomo deve aver immaginato che anche la sua donna o i suoi figli sarebbero ritornati: magari ci sarebbero voluti molti e molti più anni che per una foglia o un fiore, ma senz’altro sarebbero ritornati”.

“Già, ma forse questo gli ha provato invece che noi esseri umani non abbiamo la grazia dei vegetali. Siamo più simili ad animali, piuttosto” riflette Iacopo.

Natanaele si domanda se il primo uomo e la prima donna abbiano scoperto l’occorrenza della morte prima o dopo aver messo al mondo altre creature – e quale generosità deve essere stata la loro qualora lo avessero fatto prima di questa scoperta tormentosa.

“Probabilmente è stato accidentale” ribatte allora Filippo al quale non sfugge che cosa significherebbe qualora lo avessero fatto dopo e così hanno proseguito, gli apostoli, discorrendo ancora per un poco camminando sulla via del ritorno, domandandosi in conclusione quanto grande dovesse essere stato il dolore dell’uomo e della donna che primi tra tutti hanno saggiato l’esistenza della mortalità del proprio compagno o della propria compagna.

Proprio parlando di questo Iacopo prende anche a domandare agli altri apostoli che passeggiano con lui: “Ecco una cosa che vorrei da sempre chiedere al Maestro, ma ancora non ho trovato coraggio. Come mai quando perdiamo la vita il nostro corpo marcisce? La carne si corrode e mostra le ossa. La pelle si aggronda mentre invecchiamo. Diventiamo scheletro e carne e veniamo attaccati dai vermi. Come mai quando perdiamo la vita diventiamo mostruosi? Perché non ci trasformiamo invece in bruchi o in libellule? Perché il nostro corpo non diventa sabbia colorata?”.

Iacopo racconta di essersi anche domandato quante volte nella vita a un uomo succeda di respirare la polvere che sono diventati i morti. Quante volte la respiriamo col naso, quella polvere? Forse perché la respiriamo facendola entrare nella nostra circolazione sanguigna a volte diventiamo uomini che non siamo? Forse questa polvere si deposita da qualche parte dentro di noi e ci cambia. Prendiamo un poco dell’anima dell’uomo che è stata quella polvere.

In ogni caso, prosegue Iacopo, è un fatto l’orrore che ci procura l’aspetto di un corpo senza vita.

Ma anche quando veniamo alla luce e siamo ricoperti di placenta, il cordone ombelicale da recidere, sporchi, arruffati, piangenti, sotto sotto c’è qualcosa in questa immagine che ci repelle. Come mai? Perché il corpo di un neonato non è ricoperto da ali di farfalle e petali di rosa? Come mai quando veniamo dal Signore e finiamo nelle sue braccia, il nostro corpo ci procura queste impressioni? Perché amare i corpi morti la consideriamo una perversione – come non c’é dubbio, Iacopo ribadisce, sia. Forse tutto questo fa solo parte dell’istinto di sopravvivenza e se vedessimo i corpi appena nati o i corpi morti, ossia i corpi che vengono dal Regno del Signore e vanno nella stessa destinazione, se li vedessimo belli, attraenti, forse desidereremmo far finire la vita per entrare il prima possibile in quella dimensione che fa trasformare i corpi in bruchi e libellule, ali di farfalle e petali di rosa? Oppure si tratta di una forma di avvertimento? La morte non è cosa buona, ciò che c’è prima della vita non è cosa buona, non è bello.

Iacopo ha anche pensato che ci vogliono molti anni per togliere la vita a un essere umano oppure ci vogliono le malattie oppure ha pensato che ci vuole molta forza o strumenti molto potenti per togliere la vita a un uomo. Non è un’operazione semplice, che richiede poca energia. Dunque la vita ha un valore e i corpi sono fatti per stare in vita: non è indifferente essere in vita o essere nella non vita.

E si è anche chiesto, l’apostolo Iacopo, se tutta questa forza che ci vuole per estirpare la vita dai corpi degli esseri viventi (la forza che ci vuole per abbattere un albero, la forza che ci vuole per uccidere un leopardo, che ci vuole per schiacciare una formica) non sia segnale anche della sofferenza che questo estirpamento comporta. Del resto anche un oggetto obsolescente fa brutta impressione: una sedia bucherellata dai tarli, un tavolo rotto, una oggetto bruciato. Ciò che si avvia al non essere ha un aspetto d’orrore e sofferente. D’altra parte gli esseri viventi che assumono un aspetto d’orrore sono sofferenti, sentono e dichiarano d’essere sofferenti. Non c’è indifferenza tra lo stato di vita e lo stato di non vita: il passaggio tra l’uno stato e l’altro non è indifferente e forse questo qualcosa significa. Ci può essere un passaggio dalla vita alla non vita che noi diciamo avvenire non dolorosamente (la morte nel sonno), ma allora questo è il segnale che la vita dopo la vita è uno stato buono?

Forse, Iacopo dichiara ai suoi compagni, il modo come moriamo è l’avvertimento di ciò che ci aspetta dopo la vita. Se moriamo soffrendo significa che abbiamo agito male e la vita che ci aspetta dopo la vita sarà un inferno. Se moriamo invecchiando e non soffrendo significa che abbiamo agito bene e la vita dopo la vita sarà paradiso. Il modo come moriamo però non è determinato da ciascuno di noi singolarmente, ma collettivamente, e perciò, Iacopo afferma, non si può concludere che agendo bene singolarmente si morirà senza sofferenza, ossia che il segnale della vita che ci attende dopo la vita sarà buono e questo suggerisce che forse agire bene singolarmente non basta: rispondiamo anche degli atti del nostro prossimo.

Nel frattempo che cosí parlano e discutono i tre apostoli imboccano il sentiero verso casa di Simon Pietro non troppo distante dalla sinagoga. Hanno intenzione di bussare alla casa di Simon Pietro, la quale, per la verità, da quando Gesù si è trasferito a Cafarnao, è diventata la casa di Gesù, e lì spesso i discepoli cristiani si riuniscono. Qui Iacopo, Natanaele e Filippo scoprono appunto che il loro Maestro sta facendo le prove di uno dei suoi discorsi.

Gesù sta ripetendo ad alta voce. Ogni tanto si arresta, torna indietro e ripete quel che ha interrotto, a volte parola per parola ma con una intonazione della voce differente, altre volte modificando alcune parole, altre modificando il senso di quel che ha appena detto. I tre apostoli ascoltano come pietrificati la voce del loro Maestro. Non c’è il minimo dubbio circa quello che sta avvenendo in quel luogo. Sostano nel cortile della casa. Sentono solo quella che è inequivocabilmente la voce di Gesù uscire da uno dei vani della casa molto grande. Un venticello leggero soffia sul terriccio del cortile, e sembra non muovere nulla – le imposte o le porte o i panni appesi. Il mantello verde di Natanaele, però, sbatacchia. Quello non è ancora il tempo dell’accentramento d’anime che si formerà ben presto ogni giorno davanti alla casa di Simon Pietro in cerca della parola e del conforto del loro Maestro. La casa dell’apostolo Pietro per qualche ragione o qualche casualità a quell’ora è deserta, silenziosa. Le famiglie di Pietro, Andrea e di sua suocera che molto presto verrà colpita da una febbre fortissima e da Gesù curata, sono tutte altrove.

Gesù dice qualcosa a proposito del sale della terra e della luce del mondo e sta parlando di un tesoro. Nel silenzio del cortile la voce del Maestro risuona flautata e anche se seguita a interrompersi e a ripetere quel che va dicendo, il suo è un discorso guaritore. Gli apostoli ne rimangono beati, sentendosi subito meglio. Poi però aiutandosi uno con l’altro, dopo un tempo non ben determinato, si affrettano altrove abbandonando quel luogo.

Quando i tre apostoli su indicazione di Iacopo si siedono presso una pianta di fico, Natanaele estrae un coltello e lo osserva senza parlare. Tra gli apostoli è sceso distacco. Ognuno sta ripensando a quel che hanno appena vissuto mentre il sole sta definitivamente calando sulla città di Cafarnao. Cosa devono pensare? Si guardano l’uno con l’altro, Natanaele, Iacopo e Filippo, sapendo bene che cosa quel che hanno visto può significare.

 

Quella sera gli apostoli si riuniscono nella casa di Simon Pietro e a metà della cena Gesù dice queste parole: “Considerate il fico, il mandorlo, il melograno. Considerate l’olivo, la palma, il sicomoro. Bartolomeo – dice Gesù rivolgendosi a Natanaele – lasceresti che le radici del cedro davanti alla tua dimora si ammalassero e marcissero? E tu, Giacomo – dice Gesù rivolgendosi a Iacopo – se gli uccelli attaccassero la corteccia di un cipresso non ti muoveresti per ostacolarlo? Filippo, dimmi, se un asino si cibasse delle foglie di una ginestra lo lasceresti fare? – Gesù intinge un ramoscello di prezzemolo nel succo di limone di una ciotola e lo assapora. – Un giorno – prosegue poi – Dimaco uscì nel cortile della sua dimora e trovò un salice levarsi dalla terra. Era una pianta notevolmente grande, con i rami penduli e sottili, curva verso il basso, quasi vergognosa di trovarsi nel cortile del suo padrone nuovo. Dimaco la osservò per un poco e rimase del tutto stupefatto. Chi poteva aver piantato il seme di quel salice nel suo terreno? Non lui, di questo era sicuro. Forse poteva essere stato il vento, ma com’era possibile, Dimaco si domandava osservando gli amenti del salice, che quella pianta fosse sorta dal terreno dall’oggi al domani? Possibile che lui non l’avesse vista crescere prima? Qualcuno forse aveva trapiantato il salice da un altro terreno nella notte senza farsi vedere e sentire?

“Dimaco era di fronte a un mistero.

“Cominciò a rivolgere allora qualche domanda ai suoi vicini. Chiese al vasaio Bardesane. Al ricottaro Ossirinco. Al pigiator d’uva Basilide. Al mugnaio Apelle. Ognun di loro però non seppe rispondere. Dimaco decise di non abbattere l’albero, né di sradicarlo, anche se la sua presenza nel cortile ostruiva in gran parte il passaggio. Accettò di lasciarlo lí, anche perché osservandolo non poteva non rimanerne abbacinato. Quella pianta era un salice bianco. Aveva amenti gialli e opalini. Emanava una luce e una forza particolari. Dopo giorni e giorni, osservando le foglie, la corteccia, le radici, Dimaco si convinse che quella pianta fosse sorta dal nulla sul suo terreno. Era una pianta del Signore. Le sue foglie non invecchiavano e non si staccavano. La sua corteccia rimaneva sempre uguale. Sulle sue chiome le capinere e i pettirossi e i rigogoli non costruivano nidi, e le cornacchie ne restavano lontano. Dimaco si convinse di avere nel suo cortile una pianta sacra. Quando sua moglie Sofia s’ammalò, la febbre fu sconfitta grazie alla corteccia del salice. Non c’era davvero bisogno di prendersene cura, di quella pianta. Le foglie in dicembre non cadevano. Gli amenti non appassivano. La corteccia dell’albero curava la febbre. Era una pianta sacra.

“Un giorno però si dice che la pianta si trasformò e prese a essere come tutte le altre. In dicembre le foglie caddero. Gli amenti sfiorirono. La moglie di Dimaco non ottenne più alcun beneficio dalla corteccia dell’albero per curarsi la febbre. Si dice che questo fosse accaduto perché una volta Dimaco e Sofia osservando gli amenti del salice avessero commentato che se gli amenti non sfiorivano significava anche non ci sarebbero stati amenti nuovi: che ci sarebbero stati sempre e solo quelli. Si dice che Sofia abbia anche suggerito spazientita a Dimaco che forse la pianta non volesse abbruttirsi e abbia concluso, la donna, che la bruttezza dell’appassire non significa tuttavia che appassire sia brutto – e qui Gesù indirizza un’occhiata a Iacopo. – Ma altri sostengono invece che la pianta sacra si fosse offesa – prosegue Gesù – giacché nessuno si prendeva cura di lei. La lasciavano sola. Quasi non la toccavano. Era sacra. Avevano un poco tutti quanti timore d’avvicinarla. Anche se non ne aveva realmente bisogno, il salice bianco avrebbe voluto però esser trattato come le altre piante. Dunque, Bartolomeo, Giacomo, Filippo, vi domando: – dice Gesù infine – smetteremmo di prenderci cura di una pianta e di abbellirla e di cercare di migliorarla solo perché la nostra stoltezza ci dice che non ne ha bisogno in quanto viene dal Cielo? Un dono del Signore va glorificato prendendosene cura, anche se non ne ha davvero bisogno, poiché proviene dal Signore, e ha già in sé tutta quanta la grazia che gli occorre.”

Così dicendo Gesù spezza la matzah e la divide con gli apostoli.