Sandocan
di Gioacchino Lonobile

Quando Toni va a Ballarò, percorre sempre la stessa strada. La consuetudine gli dà sicurezza. È anche convinto che se si compie lo stesso tragitto, non lo si può che fare nel migliore dei modi. Inoltre Toni sceglie quelle vie e stradine perché sono le stesse di un racconto che aveva sentito molti anni prima, in cui un bambino che portava il suo stesso nome, ma che non era lui, partiva dal campetto in piazza San Saverio e arrivava fino a quello della Magione.
Toni scende per via Albergheria, gira a sinistra verso la torre di San Nicolò e si ritrova al centro della piazza che prende il nome dal quartiere. Toni non ha scelto il posto dove vivere, ma ci vive benissimo, anzi, non potrebbe vivere in nessun altro luogo. Nel corso del tempo ha imparato a conoscere e a distinguere le persone che frequentano la piazza, e ha stilato una personale classifica per importanza sociale. Ha sedimentato la sua idea negli anni, un pezzo alla volta i tasselli hanno trovato il loro posto, fino a completare la teoria che gli si è svelata già completa, e che in seguito ha potuto costatare essere regola infallibile. Stanno in cima alla piramide gli abitanti storici del quartiere, o meglio quelli di zona, i loro figli ed eventuali nipoti. Corso Re Ruggero, a nord via Vittorio Emanuele, a est via Maqueda e infine a sud corso Tukory sono i confini non inclusi della suddetta zona. Seconda categoria in ordine d’importanza sono i Palermitani. Questi arrivano dal resto della città, molti dai quartieri bene, luoghi non ben identificati, di cui non è certa l’esistenza, mentre difficilmente la provenienza è di altre borgate, anche vicine con la Vucciria o il Capo. Della terza categoria fanno parte, invece, i non palermitani o meglio i paesani. Studenti fuori sede che si sarebbero definiti alternativi se il termine avesse avuto mai un qualche significato, o se almeno fosse ancora di moda. Paesani può voler dire sia proveniente da Ganci, sperduto paese di qualche centinaio di anime sulle Madonie, che da Catania, seconda città per grandezza dell’isola, ma paesano può anche essere lo studente Erasmus di Barcellona. Ultimi nella personale classifica di Toni stanno gl’immigrati, questi per lo più Nigeriani, ma non solo, vengono chiamati da tutti e da secoli turchi.
Toni è uno di zona. Secondo lui le quattro categorie se pur molto diverse hanno due punti in comune. La prima è la Forst. Tutti bevono birra e tutti bevono Forst. Litri di liquido giallo, dopo esser passati dai reni delle quattro categorie, ripercorrono il letto di un torrente che i normanni chiamavano Kemonia, che ora, coperto, è divenuto via Porta di Castro e piazza Casa Professa. La seconda caratteristica comune a tutti, forse ancor più importante della prima, è la scarsa predisposizione alla fatica fisica. Le quattro categorie occupano il tempo in maniera diversa, nonostante lavorare il meno possibile sia intento comune: quelli di zona in base all’età stanno in strada a giocare, rincorrersi o a urlare; sui motorini a gestire vari traffici sopratutto legati allo spaccio o a urlare; seduti sulle panche delle taverne a giocare a carte, chiacchierare o a urlare.
Non si sa bene invece quali siano le attività giornaliere dei palermitani propriamente detti, arrivano in piazza a serata inoltrata, rimangono di solito in piedi e sfoggiano grossi sorrisi.
I primi paesani iniziano a riempire la piazza nelle ore che precedono l’aperitivo e vi rimangono fino alla chiusura. La piazza di Ballarò riposa solo un paio ore al giorno, dalle tre, ora in cui gli ultimi paesani ritornano nelle loro abitazioni in affitto, alle cinque, quando il mercato di suq-al Balari si risveglia. Occupazione principale dei paesani è l’acquisto e l’uso di droghe leggere.
I turchi stazionano sulla strada che dalla piazza porta a Casa Professa, giocano su grosse tavole a scacchi rossi e neri a dama, le donne si acconciano reciprocamente in treccine i capelli.
Toni non ha inserito la pur numerosa comunità Bangla in nessuna categoria, nonostante avrebbe come classe d’appartenenza quella dei turchi, di certo perché più dediti al lavoro che all’alcool.
Toni entra in taverna, chiede una Forst, poggia la busta di plastica che porta sempre con sé e si siede. Sul muro di fronte c’è scritto: “Odio le persone povere di spirito”, lui non capisce il doppio senso anzi non ne capisce nessuno.
Le quattro categorie hanno pochi e ben definiti rapporti tra loro: i bambini di zona giocano con i bambini turchi, mentre i grandi nemmeno si parlano. I ragazzi seduti sui motorini accolgono l’arrivo dei paesani con la domanda: “tutto apposto?”, di solito non è tutto apposto, inizia quindi la compra vendita, che dura solo pochi minuti. I palermitani hanno rapporti sporadici con i paesani, spesso colleghi d’università e, grazie alla conoscenza dell’idioma, riescono a scambiare qualche battuta con gli autoctoni, e avviare qualche sorta di contrattazione sui traffici di cui sopra. Toni lo conoscono tutti, è famoso. Qualunque categoria lo incontri, lo guarda, sorride e lo saluta: “Ahò Sandocan”. Tutti lo chiamano così.
Toni si versa il primo bicchiere di birra della giornata, birra gelida nell’afa di luglio.
– È libero?- domanda in maniera retorica lo zio Tano, indicando il posto accanto a Toni.
Zio, in Sicilia e a Palermo in particolare, è una carica che va oltre ogni legame di sangue o di parentela, è titolo di rispetto massimo, in cui l’età è condizione indispensabile, ma non sufficiente. Toni fa segno di sedersi, l’anziano si accende una sigaretta ed entrambi rimangono a guardare l’enorme palazzo appena ristrutturato che hanno alla loro destra, sotto il quale fino a pochi anni fa non ci si poteva sedere perché pericolante.
– Vedi Sandocan queste grosse mensole di pietra che reggono i balconi, prima erano vietate. A causa di un terremoto di trecento anni fa, molti dei morti sono stati causati dalla loro caduta. Certo le famiglie più importanti hanno continuato ad avercele, le altre hanno dovuto sostituirle con mensole di ferro- l’uomo aspira dalla sigaretta quasi finita – durante la guerra serviva il ferro e hanno staccato mensole e ringhiere. Poi le bombe hanno distrutto tutto, solo macerie fino a due anni fa.
Toni sta in silenzio ad ascoltare, mentre si versa il resto della Forst nel bicchiere.
– Vuoi una sigaretta?
– Non fumo, per la voce.
– Come va il lavoro Sandocan?
– C’è malura.
– La crisi, la crisi…- dice meditabondo lo zio Tano – i picciuli te li devi fare dare prima, tu sei un artista.
Toni si è inventato un mestiere e lo adora. Quello che gli serve per il suo lavoro lo porta sempre con sé in una busta: un asciugamano rosso, una scimitarra di plastica, un microfono finto e una piccola tigre di gomma. Tutti chiamano Toni Sandocan, perché lui è Sandocan. Basta che si leghi l’asciugamano in testa e la trasformazione è compiuta. A ora di pranzo il primo spettacolo: Toni percorre sempre le stesse vie, le stesse del racconto che ha sentito tanti anni fa. Via Rue Formaggi, attraversa piazza Bellini, via Roma fino alla Vucciria, discende via Argenteria e piazza Garaffaello e si ferma alla trattoria della zia Pina, dove i clienti da un grande banco possono scegliere il pesce da mangiare. L’esibizione dura dai quindici ai venti minuti, è annunciata da un suo ruggito, al quale segue la sigla d’apertura, in parte uguale a quella dello sceneggiato televisivo e per il resto improvvisata: “Sandocan… Sandocann…”. Agita la scimitarra in una mano e nell’altra stringe il microfono e la tigre, inizia a cantare nell’ordine: pezzo neomelodico, o’sarracino, altra canzone in dialetto napoletano e la sigla chiude uno spettacolo circolare. Seguono applausi, Toni gira per i tavoli a raccogliere i soldi, i turisti estasiati sono i più generosi in foto e mance. Dopo la pausa pomeridiana il tour continua per la cena nei ristoranti che circondano villa Garibaldi e i suoi ficus dalle radici aeree. La giornata si conclude con un ultimo spettacolo e possibile bis davanti la scalinata del teatro Massimo.
Toni lavora, non fa parte di nessuna delle quattro categorie, nonostante sia di zona e beva Forst.
– Ormai hai una certa età, ma tu chi vuoi fare da grande?- chiede zio Tano.
Toni lo guarda e, come se fosse la risposta più ovvia che si possa dare, dice:
– Da grande? Da grande, io voglio continuare a fare Sandocan.

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Questo racconto di Gioacchino Lonobile ha ricevuto la menzione dell’Associazione “Riccardo Braghin” al concorso “Il futuro del lavoro/Il lavoro nel futuro”.