Organico
di Valentina Maini

Rigettato, vomitato, preso a calci in culo fino al tramortire, lanciato gambe all’aria nella fossa dei cacciati e lì pianto, dormito, affamato, pigiato contro le altre teste vuote, contro corpi stanchi, eghi maciullati, contro assurde clausole legali e lì chiamato, da lì chiamato, aiuto, da lì imprecato di tornare, di riemergere – luce – qualunque cosa, disposto a, qualunque cosa, ed ecco una mano, un braccio, una spalla, qualcosa che s’immerge dal di fuori, qualche cosa che entra nella fossa e ci preleva, proprio a noi, prediletti del mucchio commerciale, recuperati, raccolti, estratti dalla quantità riemersi – scelti – in qualche modo.
Che c’è qualcuno che ci piglia, sì, di nuovo, che c’è qualcuno che ha notato, frugando in superficie, che tra teste braccia dita proprio noi ha voluto estrapolare – quel qualcuno – proprio noi, che eravamo come gli altri, che forse un po’ migliori, che cosa fa la differenza, il caso, l’esperienza, la raccomandazione, qualche santo che ci spia da chissà dove. O forse solo che stavamo lì, buoni disperati, a contare le giornate, a stilare compromessi, a decidere fin dove essere disposti ad accettare condizioni che nessuno ci dettava. E gli abbiamo fatto pena a quel qualcuno, solo pena, alla sua mano tesa cui adesso ci aggrappiamo e che somiglia all’altra mano che prima ci cacciava, che ordinava di sloggiare e spingeva via gli eccessi, i sovrappiù, gli inutili, i peggiori.
Noi, i ripescati, adesso fuori, nella gara.
Tutti in fila, in marcia, per la separazione. Un verdetto che ci smisti, che ci collochi di nuovo, in strada ancora, verso un nuovo fine. Dove.

– Ti si legge in faccia.
E ride.
– Cosa?
– Che è la prima volta.
È l’uomo alle mie spalle, porta il numero 988: voce roca.
– Sì. E lei?
– Settima. Niente di nuovo.
Sorride adesso, e una mosca vola vicino a quel sorriso.
– Cosa succede arrivati alla fine?
– Succede che decidono loro, da che parte devi andare. Ti chiederanno qualche cosa. E poi capiscono.
– Che cosa?
– A cosa sei adatto. A chi puoi servire.
Il volo dell’insetto cessa nell’incavo della clavicola sinistra: nuda.
– Trovano qualcosa per tutti?
– Dipende da te. Devi essere brava a far capire loro che puoi fare tutto, che niente ti lega.
– E come?
Il tizio traccia nell’aria un gesto con le mani, mani che sembrano reggere una sfera di latta, e un’interrogazione.
– Sembrare liberi. I più liberi di tutti.

Improvvisare una libertà smodata, ti dici, farne calcolo di precisione, andare oltre le barriere di un’esistenza comandata. Cancella le soglie, ti dici, le barriere, anche se poi crolla il terreno sotto i piedi, continua a cancellare, a correre verso censure non poi così vietate. Cancella e corri, cancella, corri: che se continui a respirare, se respiri, che se togli la giacca, gli orecchini, le collane, se copri le macchie sulla pelle, le ferite, e parli abbassando l’acceleratore, se mascheri i punti fiacchi, se pompi le esperienze e mandi giù il boccone, che se diventi più libera, la più libera di tutte, la più camaleontica e adattabile e interscambiabile, che se ti fai più acquosa delle bestie degli abissi, più malleabile, più convogliabile, che se per dimostrare tutto questo non solo ti togli la giacca e la maglietta, non solo posi la scarpa e il calzettino, non solo lanci le mutande e il reggiseno, ma anche un po’ di pelle te la raschi via poi mostri il sangue, allora sì che hai dimostrato, e sì, ti crederanno, allora sì, avrai fatto il tuo dovere, avrai giustamente sacrificato, allora sì, trovata la ragione per cui ti avevano pescato, salvato dalla folla, riciclato.

Le strategie di recupero prevengono lo spreco, riducono il consumo. Una materia, un’energia, un materiale potenzialmente utili non vengono barbaramente gettati – contribuendo così all’emissione di gas nocivi – ma riutilizzati. Diventando qualcos’altro. A un certo prezzo, ovvio. Il rischio, è la bassa qualità del prodotto finale. Le materie prime che possono essere riciclate sono: legno, carta e cartone, vetro, tessuti, pneumatici, alluminio, acciaio, plastica. L’organico va separatamente trattato.

– Dunque, qui leggo una laurea.
– Sì.
Arrossisci. Le sue sopracciglia si circondano di rughe.
– E vorrebbe utilizzarla in qualche modo?
Sta ridendo, sì, il bastardo ride.
– No. Non importa.
– E perché l’ha presa, allora.
Non c’è nessuna interrogazione, soltanto una sentenza. Non rispondere, non rispondere.
Adesso dice che noi intellettuali, adesso dice che ci lamentiamo, adesso dice che non sappiamo lavorare, che non sgobbiamo, e dice pure tutti i problemi che inventano le nostre testoline complicate, dice i pensieri che s’infilano in cunicoli così stretti, dice che ridicoli che siete, dice insulti, adesso, e che non serviamo, dice di imparare a usare le mani, a farci quello che si deve, e che è inutile che studiamo, dice impara dice, dice di prendere un esempio di vincente, dice che veniamo su come bambini, con la pelle bianca e piena di ferite, che ci vien la febbre troppo spesso e siamo così squallidi alle volte, dice che noi non gli serviamo e che cosa fa una testa piena, dice che è tardi, che son giovane e carina, dice che belle gambe che tenete, dice che adesso lo troviamo, un posto, adesso lo inventiamo, dice di prepararsi a scivolare, tenersi stretti, non urlare.

Gli atteggiamenti di fronte alle prime volte sono infiniti.
Uno di questi è una prima resistenza all’incombere del nuovo. Una resistenza un po’ passiva, un po’ svogliata, una specie di paura. Presto, scompare. E ci si ritrova con un po’ di sangue addosso, un poco di dolore, cui non fare caso, perché lo si prova una volta e basta – dicono – la prima.
Una sottile percentuale, invece, manifesta un diverso atteggiamento, nella stessa situazione. Resiste, sì, ma non passivamente. Si tratta di una resistenza congenita e patologicamente incasellata, un tenace opporsi che soltanto nei bambini è accettato. Un severo contrastare l’incombere di questo primo dolore. Di questa prima volta come imposta dal mondo esterno, dall’habitat collettivo, quasi si trattasse di un’iniziazione. Questi individui hanno molte più difficoltà di adattamento, e sono valutati come specie debole, destinata all’estinzione. Anche essi si evolvono, ma le loro metamorfosi sono di genere molto diverso – più profondo – eppure appena visibili al comune occhio umano.

Un pezzo di carta può diventare molte cose. Anche un uomo può diventare molte cose. Una donna anche, ma meno. L’importante è dimenticare la linea retta, la geometria esatta, l’importante è ammorbidire gli spigoli più duri. Voi – prescelti – avete questo solo compito. Cambiare. Dimenticare, sempre, non abituarvi mai. Ognuno di voi dovrà – in questo periodo di formazione – inventarsi il numero più alto possibile di maniere di stare al mondo. In tutto questo, di fondamentale importanza sarà una ricostruzione di identità. Un’immagine. Dimenticate quello che siete stati fino ad ora, il vostro modo di guardare, la vostra voce, il temperamento che pensavate descrivervi alla perfezione. Dimenticatevi di voi stessi, e inventatevi di nuovo. Fino ad ora avete guardato a questo pezzo di carta come ad un biglietto d’entrata per un lavoro pertinente al titolo sopraindicato. Ora, dovete cambiare posizione, e luce. Se non ne sarete capaci, sarete condannati a un’esistenza mediocre, povera, vecchia, un’esistenza che oggi non esiste più. Se vi ostinerete a non accettare questa nuova condizione, non sarete abitanti del presente, ma di un’epoca morta e dimenticata, di un’era fissa, incastonata nella terra e lì sepolta, molto tempo fa.

– Quanti?
– Venticinque.
– Venticinque usi?
– Sì.
– Complimenti.
– Grazie.
– Ed è sicura di poterli fare tutti?
– Sicura.
– Tutti e venticinque?
– Sicura.
– Dal primo all’ultimo?
– Sì, signore.
– Anche – leggo qui – il venticinquesimo lavoro?
– Anche quello, anche l’ultimo signore.
– E come mai tanta prostrazione, tanta umiltà, un così sorprendente calo di pretese?
Alzi di un poco il mento che sembra cedere naturalmente alla forza di gravità.
– Perché sono libera. La più libera, signore.

OrganicoForRent

Questo racconto di Valentina Maini ha ricevuto una menzione al concorso “Il futuro del lavoro/Il lavoro nel futuro”.