Un libro per la fine:
Viaggio nella notte di Massimiliano Santarossa

Nel dicembre del 2009, questo luogo di scritture di “Atti Impuri” ospitò una riflessione di Emanuele Tonon apparsa sul quotidiano online “Affari italiani” e intitolata Perché gli scrittori del Nordest non parlano della vita in fabbrica?. Con questo interrogativo, prima di riportare alcuni estratti significativi del così detto Discorso tipico dello schiavo di Silvano Agosti, Tonon rifletteva sul fatto che moltissimi di coloro che coltivano oggi la passione per la scrittura non hanno alcuna conoscenza del mondo delle fabbriche e tanto meno una “appartenenza esistenziale” a quel mondo, che invece Tonon riconosceva a se stesso e al quasi coetaneo Massimiliano Santarossa. Quest’ultimo replicava ai primi di gennaio 2010 con l’intervento Perché gli scrittori giovani del Nordest non parlano più della realtà?, in cui faceva suo l’appello di Tonon e incoraggiava i nuovi autori a non aver paura di impegnarsi a guardare in faccia la realtà e i suoi “incubi”.

Alla fine dell’estate è giunto in libreria il nuovo romanzo di Santarossa, Viaggio nella notte (Hacca edizioni). L’autore, classe 1974, è definito nella bandella del volume “uno degli scrittori cult del nuovo realismo italiano”, perché ha già dedicato diverse opere all’umanità che negli ultimi decenni si muove sempre più disperata in quel microcosmo denominato dai più Nordest. Come nel precedente Hai mai fatto parte della nostra gioventù? (2010), anche in quest’ultimo libro Santarossa dà voce alla coscienza alienata di un io narrante per il quale il lavoro in fabbrica e la sua intera esistenza sono un vero e proprio incubo.

Nella prima parte di Viaggio nella notte si esplora come una discesa agli inferi la vita operaia che secondo molte rappresentazioni recenti si svolgerebbe oggi in ambienti ipertecnologici e asettici. Se Silvano Agosti, richiamando Goethe, ha detto che “lo schiavo non è tanto quello che ha la catena al piede quanto quello che non è più capace di immaginarsi la libertà”, il narratore di Santarossa ha deciso di reclamare la propria liberazione nell’unica forma di redenzione che riesce a immaginare: ha stabilito che quella in cui si svolge il racconto sarà la sua ultima giornata in fabbrica e su questa terra, convinto che solo così potrà spezzare il ciclo bambino-uomo-schiavo che ha governato la sua vita facendolo diventare “ex ragazzo”, “ex uomo” e, infine, “ex schiavo”.

Il protagonista del romanzo non parla però solo di sé, dell’ingresso in una falegnameria a quattordici anni e dell’essere rimasto orfano del padre, operaio morto sul lavoro. La sua voce parla a nome di intere generazioni di uomini indotti “ad accettare la fine della libertà per rinascere gregge d’operai”, schiavi di un’industria che viene esplicitamente paragonata a un campo di concentramento, prigionieri di una società che tiene in vita i lavoratori solo per farli produrre e consumare.

Nel libro si dipinge l’ineluttabilità di questa “giostra dello schiavo”, come la definisce il narratore, il quale è costretto a vivere in un “mondo d’asfalto e cemento e ferro”, dentro a “palazzoni popolari di moderna violenza” (le Case Rosse), e a lavorare con “bestie d’acciaio costruite da bestie di carne”. Le “macchine di produzione” non sono altro che macchine di morte che uccidono alberi e tranciano polistirolo per creare oggetti di consumo, che saranno “posseduti da uomini morti”. Dalla fabbrica al supermercato “Tuttosconto”, tempio di merci e carni in esposizione per “il pasto dell’operaio”, al bar dove si rifugiano gli abbandonati, la periferia del Nordest raccontata da Santarossa si configura come un universo concentrazionario abitato da “un ex popolo contadino divenuto metal mezzadro e poi operaio e oggi nemmeno quello”, ridotto a essere “cassintegrato” e licenziato dopo aver inseguito invano sogni di benessere.

Non resta che invocare “dio, cristo, madonna, tutti gli angeli neri del firmamento”. Il carattere visionario del suo monologo non è però puro delirio. In un libro del 1977 di uno dei principali narratori operai di quegli anni, Vincenzo Guerrazzi, si legge che se “l’uomo soffre e la rivoluzione non si farà, la vera rivoluzione si farà quando l’uomo sarà distrutto”. La profezia più volte ribadita nelle pagine di Viaggio nella notte sostiene invece che il sistema capitalistico della schiavitù sta consumando se stesso: “in futuro gli schiavi pronti a vivere l’inferno della produzione saranno sempre meno […] il sistema di schiavitù dell’uomo sull’uomo si sta schiantando contro se stesso consumando ogni suo figlio. E nessuno resterà”. La storia che vi si narra è dunque solo quella di un qualsiasi giorno del secondo decennio nel nuovo millennio, dall’alba al tramonto.

A cercarli, non mancano gli scrittori del Nordest e di molte altre latitudini (dalla Puglia di Francesco Dezio, all’Emilia di Saverio Fattori, altri autori con esperienze da operai) che negli ultimi anni abbiano rivolto un simile sguardo al mondo del lavoro. Così come siamo in molti a comprendere queste storie, a poter, nostro malgrado, contribuire a nuovi racconti, alle sceneggiature che si potrebbero trarre da libri come questi, a ribadire che le malattie del nostro tempo sembrano destinate ad aggravarsi… Buona fine a tutti.

c. p.

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