Ius Soli
di Roberto Lapia

Cammino speditamente in mezzo a nugoli di umanità sbiadita, il labirinto sotterraneo per me non ha più segreti. Danzo come una fiera ferita in un bosco di betulle, scivolo con eleganza tra esseri inanimati, la massimizzazione del tempo è diventato il mio sport preferito. Ogni tanto un ostacolo inatteso si frappone tra me e l’obiettivo, e allora, solo allora, sento fuoriuscire dal mio corpo quel suono nuragico, animistico, di una lingua di cui ho appreso solo i rudimenti più rurali. È una parte di me che quasi non conosco più, la uso inconsciamente per non farmi capire e per non essere capito: da me stesso. È il momento del bisogno. Frugo nel sarcofago ancestrale della memoria, la erre si arrotola come una foglia di tabacco essiccata, la esse sibila giudizi scettici, i finali si distorcono in una u senza rime, il mio passato è una radice, e io vorrei che fosse solamente una desinenza malleabile. Sento gli echi lontani dei rimbrotti, dei rimproveri, delle pregiudiziali, il lamento del vento e quello delle bestie abbandonate. La tua terra chiama, non scappare.
Come spiegarvi che io non scappo, che io inseguo solamente quella parte di me che ancora manca all’appello?

Chi è nato in un’isola lo sa benissimo: il nostro cordone ombelicale è più lungo del normale. E non abbiamo le forbici. E poi c’è quest’idea di Terra, la nostra terra, un attaccamento palindromico. La terra è di chi la calpesta, disse un giorno qualcuno, sotto il sole atroce del deserto di Almeria. Non c’ho mai creduto: calpestare è sinonimo di oltraggiare, disprezzare, conculcare. La terra si accarezza, tutto qui. La terra la si ama, ma il mio amore non può essere esclusivo. Perché mi hai dato la vita — era una fredda mattinata d’inverno, migliaia di anni fa —, ma poi di vite ne ho vissute tante altre. Perché se casa mia è una chiesetta spoglia alle pendici del Monte, è un panorama lunare interrotto dall’impostura patetica di un pino secolare, casa mia è anche un portico pieno di zingari felici, è la paranoia di una pianura infinita, è un tris di tortelli accompagnato da un bicchiere di Lambrusco, è la calle Barahundillo, dietro l’immane cattedrale gotica, è la coda degli ultimi per un rancio che odora di brodo Star, è una taverna oscura nel cuore di quel frantoio immenso chiamato Andalusia, è il letto placido di un fiume che appare all’improvviso dietro il doppio vetro di un treno ad alta velocità, è un vecchio porto di marinai e operai reietti, oggi culla di arte e cultura d’avanguardia. È la fontana del Re, è un popolo che ne contiene tanti altri, è un cuscino sempre diverso, è timo, anice e liquirizia, è l’immensità del cielo del Libano, è la voracità delle notti di Algeri, è Cartagine, il fumo delle sue rovine. Perché la mia casa si liquefa sotto le feritoie dei miei piedi scalzi, si scioglie al calore di un’irrequietezza ben celata, perché la mia terra è il mare: è il Mediterraneo. Ma non solo. Ho gridato Morte allo sciovinismo!, ho serrato gli stereotipi in un contenitore ermetico, ho chiesto aiuto agli Dei, perché la cultura di un popolo si arricchisce solamente dal confronto aperto con altre culture, altrimenti il suo sopimento, il suo chiudersi come un bruco su se stessa, altro non è che la sua condanna al patibolo del campanilismo, un suicidio forzato, un assedio infinito.

Ho espiato il mio peccato originale imparando nuove lingue, con un puntiglio da perfezionista che mal si addice al mio lassismo compulsivo, ho cambiato corpo vita ricordi passato e avvenire, e oggi, da questo palco, ascolterò i vostri insulti, mi prenderò i vostri pomodori e le vostre uova marce, respingerò il crisma della vostra disapprovazione, e chiederò ufficialmente al sindaco unico del pianeta Terra lo ius soli mondiale. Perché vorrei essere un metacittadino, ma per il momento sono solamente un maledetto cittadino a metà.