Un’artista dell’amare: l’amabile Mabel di Luca Ricci
di Matteo Pelliti

In Mabel dice sì, (Einaudi, 2012) Luca Ricci ci porta dentro un albergo, un ex convento, situato in una città di provincia, piccola realtà universitaria e turistica  – riconoscibile nella Pisa dalla quale l’autore stesso proviene – che coi suoi monumenti, la Torre su tutti, dà lavoro come portiere di notte ad un giovane in fuga dalla propria vocazione di pianista classico, a contatto e all’inseguimento di una figura femminile tanto enigmatica quanto universale: la Mabel del titolo. Mabel., l’amabile, è il femminile “abominevole” citato da Baudelaire in una sua famosa definizione? No, forse no. Mabel è, sì, “visceralmente femmina” (p.93), archetipo di una seduttività spontanea, di natura, di un “candore” pansessuale che è l’unico strumento a lei disponibile per entrare in contatto con gli uomini. E’ però, al tempo stesso, una figura che non si lascia ritagliare facilmente da definizioni aforistiche sul femminile, o da sguardi proiettivi e vive, alla fine, come puro personaggio letterario.

Mabel non esiste, allora? E’ solo una funzione del desiderio maschile della donna materna, ipersessuata e sottomessa al tempo stesso? Deuteragonista dello sguardo sul mondo del portiere di notte/pianista mancato, Mabel incarna il tema dell’Arte, di cosa sia vivere in modo da “fare di sé un’opera d’arte”. In un passaggio illuminante del racconto, Ricci fa fare un sogno al suo portiere di notte, un bellissimo sogno (o incubo) dal sapore di certe tracce kafkiane nel quale “Mabel è l’artista”. Nel sogno tutti (gli uomini che lei incontra nel racconto) si cibano di lei: esatto contrario dell’artista del digiuno di Kafka, che esibisce il suo non mangiare, Mabel esibisce il suo “amare” tutti che è, da sempre, o almeno da Platone in poi, l’unica vera forma di conoscenza. Mabel come artista dell’amare.
Ricci racconta ancora una volta, come è tipico della sua cifra narrativa, la “claustrofobia esistenziale” del decidersi, del decidere di sé, della propria vita, come di un organismo che fatica a darsi forma compiuta. Il velleitarismo post-adolescenziale che attanaglia chiunque senta qualcosa di artistico affiorare nella propria volontà di esprimersi rimane uno dei bersagli preferiti dell’ironia urticante e dolente di Ricci. Per questo vi è, per me, una sorta di  “somiglianza di famiglia” tra i personaggi dei suoi racconti (il prete persecutore in “La persecuzione del rigorista”; lo scrittore parigino “in crisi” Briac di “Scrivere un best seller in 57 giorni”; certi padri, certi mariti, certi fidanzati di “L’amore e altre forme d’odio”) che vivono il disadattamento bruciante tra “immagine di Sé” e IO realizzato. Mentre il portieredinotte/pianista abbandona progressivamente ogni velleità artistica, ogni desiderosa speranza coltivata su se stesso (“Fare della propria vita un ‘opera d’arte” smette di essere il suo motto), Mabel si disperde, si “offre” al mondo: il suo non è un concedersi ma un conoscere, conoscere la realtà e, soprattutto, permettere agli uomini che lei accoglie in sé, di conoscere meglio se stessi. Attraversare Mabel significa decidersi, darsi una forma nuova, rigenerarsi. La natura “medianica”, fluviale, della donna, quindi, del femminile come grande medium del vitalismo del Reale, rivive nella Mabel che dice sì di Ricci.
In questo racconto si può leggere anche, in filigrana io credo, un altro tema legato all’origine, alle origini (città di origine e lingua madre) e al fare i conti con la città (di provincia) di origine, quindi col composto sanguigno e materno delle proprie radici, in una dialettica novecentesca (dentro la letteratura italiana) tra centro e periferia, là dove al polo “periferia”, grumo centripeto e materno, vischioso e paralizzante, si contrapporrà sempre la metropoli “matrigna”, centrifuga e dispersiva, (è là che scomparirà Mabel? In quale metropoli ha, alla fine, sciolto la propria identità?). L’explicit del racconto confluisce su questo tema con una rivelazione: Mabel è Madre. E’ madre che si disperde, scompare, capace di rigenerare chi l’attraversa, di non “appartenere” a nessuno e di lasciare di sé, unica traccia ed eredità, un altro essere vivente, come certi animali che abbandonano la prole al proprio destino, gesto che è, in un certo senso, un ulteriore e definitivo “dire sì” fiducioso al Mondo.