La maglia gialla
di Paolo Clarà

Ci regalarono le bici a Natale e già a Santo Stefano decise di portarmi sulla pista per provarle.
“Scivoleremo, è tutta ghiacciata”, gli dissi, sperando di convincerlo a non uscire di casa alle otto del mattino.
Non aveva voluto ascoltarmi e un quarto d’ora dopo pedalavamo come fosse primavera.
“Vai piano, per l’amor di dio. Non sono mica Pantani”, gli dissi sbuffando vapore nell’aria gelida.
“Bisognerà pur smaltire il pranzo di ieri”, rispose puntando dritto alla salita delle ville con il rapporto pesante. Era una zona signorile; negli anni ’80 alcuni avvocati di Milano avevano colonizzato la sponda est del Lago di Varese con le proprie residenze estive.
Si fermò davanti a un cancello di ghisa incorniciato da due pilastri di granito. Una coppia di leoni di marmo lo sorvegliava dal giardino interno, con la bocca spalancata.
“Un giorno anch’io diventerò una personalità”, disse asciugandosi il sudore dalla fronte con i polpastrelli. Ma non intendeva certo prendere una laurea in legge, anche perché era contabile in una ditta di laterizi.
Decise di puntare sulla bicicletta per raggiungere il suo obiettivo. Ogni mattina indossava la tuta da ciclista e, zaino in spalla, percorreva venti chilometri di saliscendi per andare al lavoro spingendo come un forsennato.
Le prime volte partì con un’ora di anticipo in modo da potersi fare una doccia nello spogliatoio degli operai ed entrare in ufficio fresco come un tulipano. Con il passare dei giorni riuscì a metterci venticinque minuti scarsi, quasi lo stesso tempo che impiegava tre settimane prima con la Golf.
A febbraio lo tesserarono nella Ciclistica Orinese e iniziò ad allenarsi con i dilettanti locali. Nel frattempo trangugiava intrugli marroni gusto cioccolato e taurina, mentre la sera frequentava una palestra con istruttore personale.
Alternava allenamenti intensivi a sedute di massaggio rilassante. Un medico olistico di Monate lo aspettava due sere alla settimana nel suo studio per cospargerlo di pomate balsamiche. Quando tornava a casa puzzava come un dromedario da circo.
Un sabato di aprile, nonostante mi fossi svegliata con un giramento di testa da montagne russe, mi costrinse a seguirlo alla Gran Fondo della Val Dumentina che ci sarebbe stata il giorno dopo.
Non dormivo da giorni.
Avevo appena scoperto di essere incinta e cercavo un momento per dirglielo, ma era sempre impegnato.
La pioggia non gli impedì di partire in bici direttamente da casa, imballato nella sua tuta Reactor a quattro strati traspiranti e idrorepellenti. Lo scortai fino all’albergo, al volante della Golf che era diventata la sua ammiraglia personalizzata: la scritta gialla “Germano Cherubini — La locomotiva di Casciago” campeggiava sul cofano mezzo ammaccato.
Alloggiammo in una suite con idromassaggio e palestra perché voleva rilassarsi al meglio. Quella notte non avevo voglia di fare l’amore, ma lui era abituato a saltarmi addosso come un indemoniato. Se lo guardavi in faccia mentre veniva aveva l’espressione di Cipollini nel pieno della volata.
Dal collo in giù era slavato come un branzino, ma ogni muscolo sembrava modellato con il das. I polpacci erano quelli di un cavallo da corsa. “Il Varenne delle due ruote”, lo aveva soprannominato un giornalista della Prealpina sulla pagina degli sport minori. Appena sotto i polpacci si era tatuato due pistoni che, a ogni pedalata, si sollevavano come per dargli la spinta.
Dopo l’amplesso leggeva sempre Cyclope, un fumetto il cui protagonista era un ciclista verde che pedalava nello spazio. Al buio e con un occhio solo.
A mezzanotte seguiva su Sky la rubrica di storia dello sport “Raggi Gamma”. Un esperto spiegava i programmi di allenamento dei corridori dell’URSS durante la Guerra Fredda. Il suo idolo era Sukhoruchenkov, la turbina del Volga. Aveva vinto la medaglia d’oro a Mosca sfrecciando a quasi quaranta all’ora di media.
Non parlavamo mai.
Comunicavamo solo a proposito delle gare che avrebbe voluto vincere e delle diete che doveva fare. Ogni mattina gli preparavo sei albumi, un etto di crudo e un bicchiere di LyoTaurus con cui buttava giù mezza pastiglia di carnicina. Non esagerava con le dosi perché voleva stare sotto gli 82 kg, come previsto dal protocollo sovietico.
A maggio fece un provino per la Liquigas e si guadagnò un posto per il Giro dilettanti. Lo stravinse con otto minuti di vantaggio sul secondo, tale Stramazzoni di Sondrio che, dopo quella sconfitta, decise di tornare a fare il casaro in una malga sopra Morbegno.
Questo strepitoso risultato convinse Stefano Zanatta a convocarlo al Tour tra i professionisti. Germano era su tutti i giornali: “Il ragazzone prealpino lancia la sfida all’americano Landis” intitolava la Gazzetta del 1 Luglio 2006.
La sera prima della tappa sui Pirenei gli spiegai al telefono che dovevo parlargli, ma lui reclinò l’invito dicendomi di seguirlo in tv il giorno dopo. Mi avrebbe mandato un salutino quando era in primo piano.
“Devo chiamare l’antennista”, risposi secca. “Ieri una tromba d’aria per poco non ci scoperchia il tetto”. Cercavo di fargli capire che non era lui il mio unico pensiero, ma era tutto inutile.
“Allora vai da tua madre. Appena finisce la gara ti chiamo e voglio che me la passi”, mi disse con il suo tono di onnipotenza.
Se non altro stavamo discutendo di una faccenda privata. Era un miracolo, dopo mesi di monologhi sulle sue prestazioni.
“Comunque, se parti domani mattina presto, sei all’Alpe d’Huez prima di sera”, proseguì in preda all’eccitazione che precedeva la gara. “Me la sento nei quadricipiti questa vittoria”.
Sarei andata solo per rovinargli la festa. Ma non potevo anteporre il mio sentimento di rivalsa al dolore lacerante della rinuncia. Non ero pronta per un figlio.
Un figlio che avrei avuto per caso, senza un minimo di progetto, senza una ragione. Glielo dovevo dire, prima che le cose peggiorassero e non fosse più possibile interrompere la gravidanza.
Preparai una borsa con quattro vestiti in tutto e partii immediatamente. Raggiunsi Gap in piena notte e dormii in auto vicino alla zona da cui sarebbe partita la tappa decisiva per le sorti del Tour e della nostra storia.
I primi ad arrivare furono alcuni supporter francesi che si piazzarono davanti al camper di Canal+. Poi fu il turno dei tecnici che dovevano collegare i cavi per la diretta. Poco dopo le nove arrivarono i corridori, preceduti dai giornalisti e dalle ammiraglie di ogni colore. Su quella verde della Liquigas, di fianco al direttore sportivo, c’era Germano Cherubini con la maglia a pois.
Alzai un braccio ma non mi notò, tutto preso a esibire gli incisivi alle telecamere. Provai a farmi largo tra un gruppo di tifosi di Cyril Dessel che per il momento guidava la classifica generale.
Soffocavo dal caldo.
Mi arrampicai sulla transenna per cercare di resistere alla pressione della folla che mi spingeva contro il tubo d’acciaio, mentre i ciclisti sfilavano sulla pedana prima di partire.
Ricordo un dolore lancinante al ventre e la voce di Germano che gracchiava dall’altoparlante promettendo la maglia gialla.
Persi le forze e piombai nel buio.

La prima persona che vidi quando uscii dal coma fu mia madre. Aveva in braccio un bambino che la chiamava nonna.