Tubo di stufa
di Mario Bianco

Gli avevano lasciato, o meglio benevolmente concesso, un pezzo di parete di metri quattro per quattro, tutto bianco, nella loggia coperta che dava sul giardino, così non stava ad imbrattare con i suoi singolari graffiti qua e là, vicino agli arredi, ai letti, magari nella cappella.
Se qualcuno gli andava vicino mentre “lavorava”, molto concentrato, e gli chiedeva cosa stesse facendo, Wilfredo in genere non rispondeva. Una volta disse:
“Un tubo di stufa”.
Poi taceva, non rivolgeva nemmeno uno sguardo distratto all’interlocutore
Stava tutto intento con un pastello industriale nero, una cicca nella sinistra, e disegnava variazioni sul tema “tubo”.
Stava immobile, a volte, per minuti. Girava la testa a destra e a sinistra, si chinava col capo quasi a terra e sogguardava l’opera dal basso, oppure afferrava un sedia, o correva in magazzino a pigliare una scala, meditava i suoi tratti, vicinissimo e correggeva, col naso sul muro, talvolta si sdraiava a terra, parallelo e accosto alla parete e studiava la prospettiva dal basso verso l’alto. Era di certo angoscioso vedere Wilfredo colla punta del naso tangente la parete, occhi chiusi per minuti, fisso, rigido, braccia lungo il corpo come un immoto sonnambulo.
Passavo spesso sotto il portico, e se c’era il pittore mi fermavo, anche per un attimo a salutarlo. Ma lui non rispondeva. Non si voltava. Non diceva nulla, faceva un segno, un tratteggio di ombre, poi si fermava.
Dopo alcuni mesi di lentissimo graffito la parete privata di Wilfredo era divenuta, per una buona metà, un intrico di intense righe nere su bianco, tratteggiate in parte. Lui stava immobile più spesso, forse perplesso su come portare a termine la sua composizione.
Allora, per una spinta di curiosità, forse intuizione o complicità, presi anch’io a fermarmi di più vicino a lui. Mi andavo a prendere una sedia e mi appostavo a fumare una sigaretta a circa quattro metri da lui sull’asse centrale della composizione, vicino ai finestroni. Restavo là per circa dieci minuti e non parlavo. Lo feci per dodici volte.
Wilfredo fece finta di niente, quindi alla dodicesima mia sosta si voltò e mi chiese da fumare, io gli offrii volentieri una sigaretta, lui ne prese quattro. Io tacqui. Sapevo di dover pagare una sorta di tassa, un pedaggio, un biglietto di ingresso per accedere al museo privato “Wilfredo”. Però avrei voluto anche entrare nel laboratorio interiore dell’austero pittore.
Alla mia tredicesima sosta l’artista si voltò subito e mi chiese da fumare.
Io mi ero portato un pacchetto in più di quelle Gauloises senza filtro che sapevo piacergli moltissimo. Gli tesi il pacchetto e lui mi fissò accigliato per un secondo nelle pupille, poi abbassò la testa, aprì, anzi strappò con decisione l’involucro, prese dieci sigarette che si ficcò nel taschino e mi restituì il resto. Quindi si girò verso il suo lavoro.
Stetti fermo e tacito nei pressi parecchio, circa mezz’ora. Attendevo il mio premio. A dire il vero, cercavo di comprarmi Wilfredo, cioè di attuare quella tattica che dicono: captatio benevolentiae.
Ma il pittore stette muto, immobile, più del solito e io rimasi scontento, anche deluso.
Sostai ancora dopo circa tre giorni, ed invece di sedermi, mi avvicinai alla parete, mi misi a fianco di Wilfredo, toccai leggermente uno dei suoi “tubi”, sfiorai altri tratti e gli dissi sommessamente: “Mi piace, è bello, sei un bravo pittore… tu!”
Lui si voltò verso di me, quasi ci toccavamo, per cui si scostò di circa venti centimetri e mi disse, piano: “Sono tubi, tubi di stufa”.
“Tanti tubi”, dissi io.
“Tanti”, fece Wilfredo, poi proseguì rigirandosi verso il muro. “Perché, siamo tutti in un tubo, tubo di stufa, ognuno ha il suo tubo. Uno vede magari il principio, il buco di luce dell’inizio… Non vede mica chiara la fine. È annebbiata! Sa che c’è, però! Tutt’intorno ci sono pareti dure, nere di ferro, di acciaio. Non vediamo mica niente intorno. Crediamo di vedere: tutte balle. Non riusciamo a vedere di là, fuori, capito!? È una barriera impenetrabile e magari di là c’è il bello, il bello… Un buco all’inizio, uno alla fine. Basta!”
Tacque, fece un grande, lungo segno verticale ad intersecare un tubo sottile orizzontale, dopo afferrò severo una sedia, si girò di nuovo verso di me, e mi chiese una sigaretta.