Voce
di Antonio Chisari

Ero seduto al cesso.
Avevo i pantaloni completamente fuori dalle gambe, le mutande invece ancora aggrappate alle caviglie, faticosamente.
Dalla finestra filtrava poca luce. Era aperta quanto bastava.
La porta del bagno dava sul salotto. Per fortuna era chiusa a chiave e lo avevo fatto nella maniera giusta, ovvero con un giro di chiave secco e ragionato.
Poco prima
Diedi una pulita alla ceramica del water, era più un’abitudine che una necessità di pulizia vera e propria.
C’era un pelo, qualche macchiolina. Presi due pezzetti di carta igienica imbevuti di qualche goccia d’acqua, diedi una passata, poi lo gettai via.
Potevo rilassarmi, finalmente.
Poco dopo
Mentre il sollievo post-evacuazione prendeva il sopravvento, una voce intonata come tante giunse da fuori.
Era più forte e decisa rispetto alla maggior parte delle voci, arrivava dalla strada.
Io ero al terzo piano, ed era pure l’ora di punta.
Clacson di automobili.
Venditori ambulanti alla ricerca degli ultimi affari della giornata.
Bambini urlanti per via dell’avvicinarsi dell’estate e della conseguente fine della scuola.
In mezzo a tutto ciò quella voce.
Sopra tutto e tutti. Note vocali dal nulla.
All’inizio mi sembrò che la voce provenisse da uno stereo o da qualche mp3 messo a tutto volume.
Uno di quei pezzi dove le parole sono scandite chiaramente, anche se fai fatica a comprenderle.
La lingua sembrava sconosciuta.
Poteva essere una lingua orientale, o semplicemente il dialetto di una città vicina.
Mi affacciai, la curiosità sorprese la pigrizia.
Era la voce di un pazzo, uno che cantava dal vivo, in mezzo alla strada. Senza chitarra.
Diceva “andate a lavorare!”
E pure “ladri di merda!”
Era davvero intonato.

Chiedeva l’elemosina, forse. Così mi parve, mentre finivo di cagare e tiravo lo sciacquone, perché nel frattempo mi era tornato lo stimolo.
Mi accorsi di avere voglia di cantare, mentre le mie terga soddisfatte si riappropriavano delle mutande del giorno.
Lavai le mani, riaprii la porta chiusa a chiave, la richiusi.
Cantai.