Don’t call me baby (Cronache epicediche #1)
di Arturo Belletti

Lavoravo al call-center da più di due mesi, ormai. Avevo smesso di fingere di cercare un lavoro e smesso di fingere di cercare una laurea. I miei più cari amici erano divisi in due gruppi. Il primo composto da coloro che dicevano di essere senza soldi ma spendevano un casino in sigarette e birre, raramente lavoravano, ancor più raramente avevano qualcosa di interessante da raccontare. Essi abitavano tutti più o meno vicini. Da un po’ di tempo mi ero convinto che i quartieri di Torino raccogliessero persone unite da un comune destino. Il secondo gruppo era composto da coloro che aspiravano al cambiamento, erano scrittori d’avanguardia, poeti da boudoir in Falluja. Gente seria. Vestivano preferibilmente con giacche di velluto scure e strati di maglie e maglioni. Lamentavano cocciutamente la mancanza di denaro, parlavano in continuazione di danzare sulla decadenza, io però mai li avevo visti danzare una sola volta. La notte più incredibile è stata quando due ragazze appartenenti al primo gruppo, ma solo in quanto amiche di amici, avevano cominciate a muoversi come odalische avvicinandosi l’una all’altra piano finché non si erano arrotolate le due lingue e tutti i maschi presenti, conoscenti e non, avevano sperimentato quanto è dolorosa un’erezione contro i pantaloni.
Lara era bellissima. Io avevo perso tutto. La nonnina che mi manteneva era morta per il dispiacere una notte dopo una furiosa discussione: “Col cazzo che mi laureo, quella fottuta facoltà è per i mediocri, i professori sono tutti marci”. I miei erano con le pezze al culo. Tutti avevano cercato di convincermi a prendere la laurea perché avevo finito gli esami ed era assolutamente stupido fermarsi lì. Dopo il funerale mi ero ravveduto: non mi avevano perdonato né riaccolto a casa. L’eredità era qualcosa di simile a un mezzo stipendio. Lara era mia collega al call-center. Lavoravamo in due postazioni vicine. Non posso descriverla. Con quell’impiego guadagnavo un modesto stipendio che mi permetteva comunque di vivere in un camera e cucina con bagno sul ballatoio dalle parti di via San Donato. La casualità mi aveva sempre fermato. Mi feriva incontrare ragazze bellissime che non avrei più rivisto. Lara era lì vicino a me tutti i giorni. Mi ero imposto il compito di non sciogliermi nell’anonimato della terza postazione dalla finestra della quinta fila. Avevo cercato di stringere amicizia con qualcuno facendo il primo passo, un caffè, una cena in pizzeria, quelle meno care, avevo subito accettato i tentativi altrui. Si era formato un bel gruppo. E spesso Lara era con noi. Mi avevano steso definitivamente le sue risate e il modo in cui si tirava i capelli dietro l’orecchio. E qualche volta lei aveva accettato anche inviti per un caffè a due, una sera mi aveva addirittura portato a un concerto perché una sua amica stava male, lei aveva due biglietti… e non era fidanzata. Ero terrorizzato. Non vedevo più gli amici di cui sopra. Non avevo neppure un telefono né tempo né le forze. I luoghi comuni mi avevano terrorizzato. Avevo paura di proseguire. Di provarci esplicitamente. No so perché ieri abbia deciso di seguirla in ufficio nel tragitto fino ai servizi igienici. Né di proseguire oltre a una ventina di metri dietro di lei quando ebbe superato la toilette femminile. Non so perché non sia tornato indietro e sia rimasto a guardare da dietro l’angolo mentre lei si inginocchiava sul pavimento del seminterrato e cominciava a praticare un pompino al dott. Panetti, responsabile del call-center. Ricordo solo di aver vomitato nel bagno dopo una corsa a schizzo.
Oggi faccio 27 anni.

[2004]