Checkpoint a Eurolandia di Salvo Nugara.
Una nota critica di Enrico Carovani e una poesia

È uscita una nuova edizione di Checkpoint a Eurolandia. Poesie e scritti 2000-2008 di Salvatore Nugara, con una presentazione di Ade Zeno e una nota critica di Enrico Carovani, che qui riportiamo:

Sin dal titolo questa raccolta di versi del poeta torinese d’adozione Salvo Nugara, che attraversa  quasi un decennio (2000-2008), confessa al lettore una propria onesta, meditata e aperta impoeticità: il suono quasi giocoso di un sostantivo inglese, Checkpoint, che dovrebbe richiamare alla mente del lettore il dramma della Berlino divisa, ultimo emblema di Storia viva del secolo scorso, si unisce ad un termine di matrice giornalistica dal sapore zuccheroso e irreale, di quelle espressioni da parco a tema che mistificano il referente reale: Eurolandia.

In quale parcogiochi paradossale ci conducono i versi di Nugara? Quale visione polemica consente allo scrittore un’operazione a prima vista esiziale, combattere il deserto del linguaggio dominante dei notiziari quotidiani, delle conversazioni vere, virtuali, formali e non, dei comunicati stampa e dell’informazione odierna tout court, usando le stesse armi, alcune delle medesime parole, combinando fra loro gli stessi vocaboli simbolo del persistente svuotamento lirico contemporaneo?

Checkpoint a Eurolandia è un tentativo interessante, e più audace di quanto sembri, di sublimare le accensioni indignate di una poesia di impegno civile in senso classico e militante senza rinunciare alla lotta, senza una resa depressiva a temi effimeri, accantonando semmai pretese di eroica purezza stilistica e coerenza con gli scritti del passato. È l’esito questo di un’indignazione già esplorata e già espressa, già manifestatasi, ma ora in un certo senso giunta a compimento in questi testi della maturità dalla voce pacata e ferma, in apparenza risolta e placata, punto d’arrivo di una ricerca che cominciò a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 con l’eloquente raccolta Ancora l’implacabile sete.

I pensieri vanno incontro ad un’inaspettata leggerezza, le immagini utilizzate non mirano a colpire, a impressionare, meno che meno a scandalizzare il lettore, con il loro resoconto attento e puntuale di quanto accade nel mondo di più oscuro, tragico e ultimativo. Alcune macchinosità tra i versi si notano, come scorie del passaggio dal racconto mediatico a quello poeticizzato, liricizzato, ridigerito, tradotto. Molte delle esperienze che animano i testi di Checkpoint a Eurolandia, da “Beslan” a “Rawalpindi”, da “Meridiano di Polvere” a “Filistei” tradiscono infatti la difficoltà di filtrare notizie lette e ascoltate, accadimenti riportati dai mezzi di comunicazione, per farne poi materia di letteratura. Affrancarsi dal lessico televisivo, sovvertire la predominanza, la prevalenza odierna della sintassi stessa della cronaca nazionale ed internazionale è fra le forme di resistenza più nobili che si possano attuare in una società sempre più prossima all’instaurazione di una mortifera neolingua. L’operazione “ad alto coefficiente di difficoltà” riesce in molte delle liriche perché Nugara adotta lo sguardo dello scrittore là dove solitamente non troviamo altro che uno spettatore, anestetizzato alla scrittura. La letteratura italiana degli anni Duemila ha conquistato la consapevolezza di essere figlia in larga misura dell’inesperienza, di essere “senza trauma”, come sintetizza e riafferma anche il recente volume critico di Daniele Giglioli (2011, Quodlibet).

L’incapacità di “farsi capitare le cose” confrontata con le cose che capitano e ci “sembrano capitare” sui vari schermi di cui disponiamo, accesi e nutriti di fatti ventiquattr’ore su ventiquattro fotografa uno stato di minorità a cui si tenta di rispondere vuoi con la narrativa di genere a tinte forti vuoi con il disgregamento pieno della non-fiction. La poesia, che quasi mai viene chiamata in causa quando in Italia si parla dello state of the art, appare tuttavia il laboratorio decisivo per formulare nuove e ulteriori risposte sul terreno del lessico, della parola, per così dire “dell’unità-base” del racconto stesso di un Paese e di un’Epoca.

La scelta di Salvo Nugara va nella direzione di uno smascheramento delle inconsistenze stesse della martellante narrazione quotidiana di eventi, catastrofi e crimini di varia natura, un lunapark o “Labirinto” disneyano e grandguignolesco al tempo stesso, dal quale è difficile illudersi di poter uscire una volta per tutte. “Come un fatto naturale”, l’agenda setting contemporaneo e l’attualità effettiva e viceversa, in un rimando incessante tra l’uno e l’altra, sono costellati di truci morti sul lavoro, di sbarchi di clandestini che se non trovano la morte in mare trovano la beffa amara sulla terraferma, di attentati mirati e bombe che uccidono a caso, a strascico, di faide infinite e interminabili in Medio Oriente, in Cecenia, in Pakistan, globali.

Si corre certo il rischio in qualche caso di naufragare nell’impronunciabilità ovvia di nomi d’oggi come “telefonino”, “peace keeping”, “carrette del mare” e “new economy”, o in espressioni buttate via di proposito, come il titolo della lirica “Non siamo messi bene”. Nugara oppone però a certe deformità linguistiche e ad una certa dose consapevole di sentito dire le illuminazioni del privato, un concerto di Salvatore Adamo a Parigi, le memorie di viaggi significativi, di opere d’arte contemporanea, di affetti puntualmente miti e rassicuranti, di minime infelicità concrete e accettate, che sono il discrimine tra il vissuto giovanile debordante e un po’ canonico e quello più maturo e controllato.

Così, come un “Moderno Prigioniero” (appassionata lettera in versi ad Adriano Sofri), il poeta, al cospetto della massa di dati e fatti e brandelli di fatti dei mass media appunto, si trova a rievocare, perfino necessariamente, come medicina, “il biancore azzurognolo delle lenzuola stese al sole” della sua infanzia e fissa, fin quasi a sfumare in esso o a incarnarlo, mai compiaciuto, “questo cielo, che grazie al cielo é solo cielo”.

Enrico Carovani

Una poesia della raccolta:

Bacini

Compenetrazioni diffuse e accumuli a dismisura.
Contaminazioni e osmosi.
Esondazioni e dilagazioni ai bacini ignudi
e inermi delle periferie senza nome,
senza confini noti e in continuo moto;
sussultorio, ondulatorio, sghembo come terremoto.
I ceti si stratificano in orizzontale,
il centro si allontana o si decentra.
Tutto si intesse come trama fitta
e non filtra genere o limo
e tiene le pieghe e tutto si accavalla nella calca
e tutto arriva inaspettato e scopre attriti
ed anch’esso è detrito, che si sponda contro il nulla.
Immaginare in fretta, pensare veloce e decidere per il peggio;
che è sempre meglio del prima.
Così, come acque reflue ci si adatta e adagia,
come schiume putride e galleggianti
in questi bacini della nostra impazzita geografia.

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