Àscara
di Barbara Buoso

Ieri, uscendo dalla mostra all’Oratorio San Rocco, ho visto un paio di principesse, una rosa e una bianca.
Quella bianca aveva dei vistosi fiocchi azzurri appuntati sul vestito e una coroncina in testa, una bacchetta magica scarica che brandiva vigorosamente, ormai, come fosse un direttore d’orchestra impazzito.
Quella rosa era impegnata a correre dietro a un piccione facendogli il verso del cane, avranno avuto sette, otto anni.
Quando il povero piccione si è deciso a volare via la piccola mi ha guardato, si è messa a ridere, s’è tirata su le gonne del vestito ed è corsa via.
Finalmente le principesse moderne, di ogni colore e età, hanno capito che per correre veloci bisogna alzarsi la gonna, altrimenti inciampi.
Io, lo dico con un certo orgoglio, mai e dico mai ho indossato un vestito da principessa, mai!
Né azzurro, né rosa, né blu, mai.
E lo dico con un certo orgoglio, sì, perché il vestito da carnevale — quando ero piccola io — si “prestava” e si “passava” da vicino a vicino, da bambina a bambina, da bambino a bambino.
Un po’ come la tunica della comunione insomma, patrimonio comune del paese, il bianco della tunica sta alla comunione come l’azzurro del vestito sta alla bimba.
Il carnevale della mia infanzia era popolato solo da cowboy e principesse, non era possibile derogare a queste due maschere; era una tappa obbligatoria dell’infanzia, ridicolizzarsi con un vestito di tulle che puzzava di confetto andato a male.
Una mamma con una bimba, in paese, poteva solo aspirare a vedere la figlia vestita da principessa, possibilmente azzurra, già se eri gialla ti guardavano male.
Io manco questa soddisfazione ho saputo dare a mia madre, ricordo ancora le infauste circostanze.
Il vestito me lo doveva passare la figlia della bidella che si chiamava come la capitale d’Italia, Roma, che poi era la custode della scuola elementare, viveva lì perché il marito, Settimo, era un invalido al cento per cento, quindi qualche beneficio ce l’aveva.
Aveva una figlia femmina che si era guadagnata il titolo di Àscara per via di alcune sue, chiamiamole, intemperanze.
L’Àscara era una catechista, tutti i sabato pomeriggio distribuiva la parola di dio a noi pecorelle, il fatto è che non distribuiva solo quella.
A chi distribuisse — oltre a noi — la parola di dio era chiaro a tutti: lui era il giovane cappellano della parrocchia, un bel giovanotto con una ruspante Autobianchi A112 Abarth, che aveva fatto scalpore in paese già per il solo fatto di non portare la tonaca d’ordinanza.
Li trovarono spesso intenti ad approfondire la parola di dio in mezzo alle fresche frasche con i sedili ribaltati e i fari spenti.
Questo eccessivo amore per la parola di dio ebbe conseguenze devastanti per l’Àscara e il giovane cappellano stonacato. Intervenne addirittura il vescovo, a cui non rimase altro da fare che spedire al fronte — un paesello sotto gli argini del Po — lo spericolato prelato che tanto aveva amato la sua pecorella.
Lei, responsabile di non avere respinto ’sì tanto amore, venne condannata a un fidanzamento forzato già all’età di sedici anni con un vecchio possidente del paese, che la chiuse in una casa immensa e le fece fare tre bimbe obese e bionde che mai riuscirono a entrare in un vestito da principesse a causa della loro dimensione.