Ricordo di Anacleto Verrecchia
di Alessio Magaddino

Pare che il grande Schopenhauer, a chi gli si accostava con reverente timore, mostrasse, se l’interlocutore gli andava a genio, di essere tutt’ altro che l’accigliato misantropo che parrebbe trasparire dale sue opere, e mostrasse, invece, un’umanità e una schiettezza che mettevano immediatamente a proprio agio l’interlocutore.
Anacleto Verrecchia era schopenhaueriano fino al midollo perfino in questo. Chi lo avesse conosciuto prima dalla lettura del suo libro più famoso – “La catastrofe di Nietzsche a Torino” – che dalla frequentazione personale, si sarebbe formato di Verrecchia un’ immagine distorta. Leggendo gli strali impietosi scoccati contro le debolezze e le sciagure anche fisiche del Nietzsche uomo privato, si poteva provare quasi una forma di timidità nell’accostarsi la prima volta a Verrecchia, che, una volta conosciuto, si rivelava invece dolcissimo e umanissimo. L’uomo spiccava immediatamente per la semplicità di gusti, la franchezza e la brillantezza intellettuale, smottante in continui mots d’esprit salaci ed irriverenti. Nulla gli faceva più orore della malattia, prettamente italiana, che egli chiamava “titulitis”: il rispetto imbalsamato verso i titoli esteriori, le qualifiche tanto altisonanti quanto vuote di umana sostanza che si incollano agli individui senza connotarne l’essenza. Rifuggiva dal bailamme dei titoli accademici, dalla vacua pomposità dei “filosofi” di professione e dei corsi universitari. Riteneva le lauree, almeno quelle umanistiche, dei meri certificati e amava dire che nessuna facoltà di filosofia o di lettere aveva mai formato un filosofo o uno scrittore (anche in questo era all’unisono con Schopenhauer, che impalacabilmente aveva fustigato la pedanteria e le fumisterie dei professori tedeschi). Paragonava le università a un trogolo, dove i professori nutrivano gli studenti con le loro ghiande ideologiche, facendo politica piuttosto che cultura: l’impolitico Verrecchia sposava anche qui le tesi schopenhaueriane, per cui la politica è semplicemente un’attività inferiore dello spirito, per cui si infervorano le persone di scarsa intelligenza o i ciurmatori. Vengono in mente le parole di Giuseppe Tucci: “Se c’ è una cosa che detesto è proprio la politica in tutti i paesi e sotto tutti i climi. Alla vanità ed improntitudine e vuotezza degli uomini politici io contrappongo i santi e gli eroi, i poeti e gli uomini di scienza”.
Verrecchia amava ripetere di avere fatto tre università: quella effettiva, che poco o nulla gli aveva dato, la carriera giornalistica, che ne aveva affinato la penna tagliente, e i tre anni di permanenza nel Parco del Gran Paradiso, la sua vera scuola di vita, dove il contatto solitario con la maestà della natura aveva conferito al suo spirito e alla sua scrittura la forma definitiva.
Verrecchia aveva i modi, l’eloquio e l’aplomb di un grande gentiluomo meridionale di altri tempi e un entusiamo quasi fanciullesco per tutte le cose della vita e della cultura. Il suo fondo era ciociaro e “primitivo” nell’accezione più lta del termine, autentico e irreclutabile. non scalfito minimamente dall’avanzare dei tempi e dei costumi, in una sorta di felice anacronismo o di gioiosa intemporalità.
La sua conversazione, affabilissima, senza ombra di sussiego o si superiorità, doveva essere simile a quella dei filosofi della Magna Grecia o dei grandi pensatori napoletani, da Vico a Croce. Poco conta che Verrecchia, difensore di una filosofia per sua essenza “trascendentale” e irriducibile ai sussulti temporali dello storicismo (come Kant e Schopenhauer, egli faceva rientrare il tempo fra le categorie a priori), non amasse all’eccesso tale scuola di pensiero, e, anzi, se ne distaccasse e ne dissentisse, giungendo a bollare Croce, che pure stimava come scrittore e come storico, come “un Pangloss avvinazzato”: l’humus umano e culturale era più intimamente simile di quanto egli stesso credesse e Verrecchia  è stato, a tutti gli effetti, l’ultimo esponenente della filosofia e dell’Umanesimo della Magna Grecia.
Il Mezzogiorno era stato il grande epicentro italiano della cultura tedesca, sia nella sua dominante hegeliana che nelle sue altre diramazioni. Verrecchia, nativo della Ciociaria, assorbì quella cultura germanica già nei suoi verdissimi anni, segnati dalla tragedia della guerra, quando sua madre trovò la morte nei bombardamenti americani ed egli stesso, vivo per miracolo, venne sostentato dai soldati tedeschi, apprendendo da loro la lingua di Goethe.
Da allora tutta l’opera di Verrecchia sarà segnata da questa dominante tedesca (talora perfino eccessiva, al punto che la sua germanofilia lo indusse a trascurare altre culture e tendenze non meno valide della modernità). Dalla giovanile tesi di laurea sull’amato Lichtenberg alla grande prova su Nietzsche (il libro che gli dette la fama e che Karl Popper lesse per tre volte nella versione tedesca), dalla mirabile “Rapsodia viennese” (letterariamente, forse, il suo capolavoro) a “Schopenhauer e la vispa Teresa”, Verrecchia ha scandagliato le lettere e la filosofia tedesche trasvolando dall’una all’altra delle sue predilezioni con lo stile flamboyant e scanzonato insieme che gli era proprio.
Pochi si sono accorti che Verrecchia è stato anche uno degli ultimi grandi maestri della prosa italiana, capace di una sapienza stilistica consumatissima, in cui si incastonavano vernacolarismi, prestiti dal tedesco e dalle lingue classiche o preziosismi e vocaboli rari che erano recuperi lessicali inauditi dai tempi di D’Annunzio o, forse, di Tommaseo.
Il suo libro più personale rimane il “Diario del Gran Paradiso”, in cui si intrecciano in un nodo inestricabile riflessioni filosofiche, autobiografia e osservazioni naturalistiche. Leggendo queste pagine di sorgiva freschezza, si vede come il giovane Verrecchia, giunto nel Parco per leccarsi le ferite della guerra e ritrovare l’armonia con il mondo, sia già interamente formato e indistinguibile dal Verrecchia della maturità, con le sue passioni e i suoi odi irriducibili, con i suoi autori di elezione e con le sue bestie nere, talora con le sue incomprensioni, come quella per la letteratura moderna (con qualche raro trasporto per scrittori come Cioran o come Junger) e per le avanguardie pittoriche (bollate come “allumacature”).
Si dice che l’individuo sia ineffabile, ma le pagine di Verrecchia sono sempre a tal punto rapprese di umori, di scatti e di bizzarrie da rendere invece l’umanità del loro autore sempre viva e palpabile, senza barriere per il lettore. L’imptonta digitale della sua personalità è inconfondibile: che si sia d’accordo o meno con quello che Verrecchia sostiene, una sua pagina si distingue fra mille altre.
A costo di rompere l’argine della commozione, chi scrive non potrà mai dimenticare le infinite finezze umane di cui egli era capace, come quando, già molto anziano, volle inerpicarsi sulle ripide vie della parte antica di Cervo Ligure, senza lamentare alcuna stanchezza, per la sola gioia della condivisione con gli altri. Anche questo frammento di memoria serve a ridare il senso dell’uomo in tutta la sua semplicità.
“Non ho mai incontrato una creatura più nobile, più fiera e soprattutto più onesta dello stambecco, che vive in alto e disdegna le bassure”, scrisse in esergo al suo “Diario del Gran Paradiso”. Senza saperlo, dipingeva il miglior ritratto di se stesso, come scrittore e come uomo.
I morti sono i nostri amici. Questo breve ricordo vorrebbe solo essere, appunto, il proseguimento del colloquio con un amico, al di là dei suoi fisici anni e del labilissimo, sempre cedevole confine che separa i morti dai vivi: perché il restituire anche solo una scheggia di memoria è già il miglior trionfo sulla morte che si possa compiere.