Monologo monumentale / 3
di Elisa Alicudi

Non importa che mi abbiano eretto solo ora, il tempo ha raggiunto il suo scopo. La Storia ha figliato corpi morti di un passato che attecchisce come l’erica ed è tornata solida. Se sono un poeta senza storia, come ho chiamato Lermontov, non potrei dirlo. Ma ho attraversato il secolo sempre sull’abisso con il filo a piombo, con la vertigine. È sbagliato immaginarmi con sembianze umane, meglio un quadro astratto di Suetin o di Malevič. O uno spartito musicale, che sbiadisce e scompare appena diventa suono. Un susseguirsi di note e annientamento. O se vi piace, potete immaginarmi come una macchia luminosa, un asterisco, un punto a croce. Se mi avessero chiesto consiglio, avrei esposto il mio punto di vista, invece hanno fatto da loro, preferendo il classico monumento naturalista e psicologico. Il mio corpo adulto, piegato e immobile. Le ginocchia e i gomiti flessi. Le mani che sorreggono la testa grave, lo sguardo in basso. La vita che rotola su di me come il macigno di Sisifo. Quando incontrerete il mio monumento, il monumento del poeta Marina Cvetaeva, fate un lungo respiro e immaginate che tutta quella gravità si possa da un momento all’altro librare in un veloce passaggio d’ombre tra cavalli in fiamme e le piroette di un valzer. Il colore della rosa o delle margherite si incolli agli occhi e il vento solletichi i timpani con instancabile vezzo.
Mi hanno eretto sul vicolo Boris e Gleb, di fronte all’unica casa che abbia sentito mia. Qui è trascorsa la giovinezza. Qui ho amato Sereža, ho amato l’odore infantile dei vicoli moscoviti, qui ho cullato due figlie con l’animo in gola, le ho educate alla parola, atteggiandomi a Pizia o Sibilla. Non vivevamo altro che di lettura. Gli spigoli ci annoiavano, i soprammobili prendevano polvere, le scorte erano sempre donate.
Siamo destinati – e questo lo sappiamo –
a donare non a mettere da parte.

Dice Anna Achmatova, a ragione. Non perché siamo generosi, nobili, inesauribili. In verità no, semplicemente, non ne possiamo fare meno. Per incapacità. Ecco tutto. Incapacità di calcolare somme e sottrazioni. Incapaci di tagliare la legna, di procacciarsi i viveri. E con quanta evidenza si è scoperto il mio disagio negli anni in cui sola mendicavo un pezzo di pane. Il 1917. L’anno dell’esplosione. Era spuntata una parola che accomunava nobili, intellettuali e contadini. Rivoluzione, direte voi. Potere rosso, potere bianco. No, la parola era fame. A Mosca, nelle città, come durante l’assedio di Leningrado, bruciavamo i mobili, chiedevamo in prestito tessere alimentari, mangiavamo miglio e patate. O non mangiavamo giorni e giorni, disaffezionate al corpo, io e le mie bambine. Non vivevamo altro che di lettura. Eppure non sempre ce la facevamo. Irina è stata risucchiata dal suo stomaco, dall’assenza, l’eco belligerante nelle strade non l’ha tenuta sveglia. L’avevo spedita fuori città, mi dicevano lì starà bene, c’è sempre cibo lì e i bambini crescono sani e tenaci. Lei che aveva fame di bimbo, che una volta, inosservata, aveva mangiato tutte le scorte e io, che non riuscivo a seguirla tutto il giorno, avevo preso l’abitudine di legarla alla sedia. E Sereža lontano, non potevamo salvarci tutte.
Sentivamo le campane dal vicolo Boris e Gleb, nella vecchia Mosca, tra le cupole d’oro; i rintocchi scandivano il frenetico ricambio di passi nelle sale del potere. Ma noi vedevamo altro, sentivamo i pioppi frusciare o la neve scricchiolare sui tetti, nella mansarda ogni raggio di luce traghettava pensieri iridescenti, eravamo già oltre le nuvole e da lì governare il mondo era facile. C’era un viavai di amici, di infinite conversazioni e di notti insonni, mai un sollievo che non fosse l’inizio di un limare ininterrotto le lettere, le etimologie, le pagine, a rotta di collo, Dickens o Dostoevskij. Dite pure quello che volete, che la mia poesia sia un’arte del ricamo, un capriccio per signorine, che è il tentativo malriuscito di liberarsi del lezioso cinguettio. Mio caro Mandel’štam, che mi hai conosciuto e hai seguito i miei passi per Mosca, io che te l’ho mostrata negli angoli più veri, nel legno delle ville e delle staccionate, nei conventi che soffiano quiete improvvisa e nei cimiteri alberati. A Mosca non ci si perde, è sufficiente seguire l’istinto per avventurarsi nell’anatomia del suo corpo, dentro le ombre caudate dei cortili, il percorso è iscritto nelle vene. Dall’arteria principale ecco d’improvviso una sottile scorciatoia, un mondo odoroso di lievito e carbone. Segui i sentieri battuti tra un edificio e l’altro, e in un soffio hai raggiunto un altro angolo di città, la via Prečistenka o il lungo fiume. Anche se ti è venuta a noia la mia poesia, caro Mandel’štam, hai amato Mosca, la mia culla orientale, la barbara armonia che appartiene a ogni russo.
Non vivevamo che di scrittura, allora e dopo, quando ho conosciuto l’Europa da est a ovest, ma tornando in patria, non mi hanno offerto neanche un posto da lavapiatti all’Unione degli Scrittori.
Potevano chiedermi di stringere i denti, li ho stretti per tutta la vita, di abbassare il capo, di farmi da parte, l’ho fatto, di odiare e l’ho fatto, potevano portarmi via i figli, ma non potevano sopportare quell’amore che a falcate da giganti scuote la terra. Quell’amore che disprezza le carte anaerobiche del potere.
Ora mi guardo intorno, spio i rari passanti che attraversano il vicolo. Studenti che vengono a leggermi le loro poesie, le rime traballanti, la voce spezzata e un armamentario di nuova Russia nella quale annaspo. Altri si fermano in faccia al monumento per lasciare una rosa o un tulipano. Hanno cappotti lisi e buste di tela. Riconosco l’indecisione nella mano che si avvicina al piedistallo e lascia cadere il fiore. Riconosco gli occhi, vuoti e rigonfi. Con sguardo impenetrabile e inespressivo si rivolgono anche loro a me, come a chiedermi qualcosa, si avvicinano a prendersi una parte, ma non ho tempo, non ho mai avuto tempo, non ho vissuto che di scrittura.