Marco Rossari, L’unico scrittore buono è quello morto
di Ade Zeno

Per presentare l’uscita in libreria de L’unico scrittore buono è quello morto di Marco Rossari (e/o, 2012), da cui abbiamo edito un racconto su “Atti impuri” vol. 2, rimandiamo alla recensione di Ade Zeno apparsa venerdì 28 gennaio sul settimanale Gli Altri:
Un anonimo bancario trascorre ore di lavoro e serate libere a pianificare mentalmente l’opera letteraria che da alcuni anni cova in segreto. Quando, interrompendo l’incanto dell’estenuante attesa, si decide a iniziare la prima stesura, nessuno lo ferma più: il libro prende forma come un gigante esploso, un blocco unico senza accapo comincia a espandersi ovunque, sconfina oltre l’inchiostro, riesce rapidamente ad assorbire l’intero mondo dell’autore, se ne impossessa, invade ogni suo anfratto, lo paralizza, lo rimpiazza. Poi, intorno alla millesima pagina, la parola fine arriva ad arrestare (provvisoriamente) la corsa. Stremato, l’uomo rilega il dattiloscritto e lo invia a un editore, che però rifiuta di farsene carico. Lo scrittore non si scoraggia, riprende il titano da dove l’aveva lasciato, decide che è opportuno snellirlo con un coraggioso lavoro di lima. Le parole faticano a lasciarsi eliminare, pesano come macigni, non se ne vogliono andare, ma dopo le prime resistenze il peso va via via alleggerendosi, le unità superficiali diventano frasi, e le frasi periodi, e i periodi paragrafi: a ogni colpo di scalpello il monolite si fa più piccolo, uno stillicidio di pagine che scompaiono per lasciare posto al senso di placida perfezione che forse si prova in prossimità del nulla. Bisogna morire per rinascere, riflette con brividi di soddisfazione lo scribacchino bancario, e senza esitare, in uno stato di esaltazione febbrile, scarnifica il corpo dell’Opera fino a raggiungerne i muscoli, le nervature, e poi ancora più a fondo, un’erosione continua, inesorabile, fino all’ultima particella dell’ultimo ossicino rimasto, vale a dire la parola definitiva, due lettere, un monosillabo. E vale davvero la pena di arrivare a scoprirla, questa parola – svelarla qui al futuro lettore sarebbe un atto vigliacco – che suggella il senso profondo di un libro bellissimo, divertentissimo, e pervaso di intelligenza allo stato puro. L’unico scrittore buono è quello morto – di cui si è appena grossolanamente riassunta la conclusione – segna l’atteso ritorno alla narrativa di Marco Rossari, che dopo qualche anno di pseudosilenzio ci regala una squisita collezione di racconti che parlano di scrittura, di lettura, di editoria, di miseria e di mostri sacri inviolabili, dunque legittimamente violati. Intervallati da simil-aforismi che spuntano qui e lì come funghi velenosi, i ventidue episodi dello Scrittore Morto (o Scrittore Buono?) si divertono a imbastire un delizioso gioco al massacro in cui a fare le spese una volta tanto non sono i lettori, ma il gioco stesso; un gioco piuttosto serio, si capisce, solo apparentemente simile all’idea di godibile divertissement, col quale condivide leggerezza di stile e nient’altro. Perché la sostanza, la materia oscura che germina nel suo ventre, non ha nulla di innocuo, nulla di neutro, insomma fa paura. Il suo nome è: letteratura. Una letteratura che Rossari decide di ferire, capovolgere, sovvertire, maltrattare a colpi d’arguzia, riuscendo fin dalle prime battute nel felice intento di smascherare piccolezze e luoghi comuni di questo tanto fantasmagorico quanto feroce teatrino. E allora eccoli, i suoi gretti protagonisti, rivisti e corretti: un Lev Tolstoj proiettato nel (nostro) presente, costretto a concedere interviste imbarazzanti durante una trasmissione radiofonica; un tale William Shakespeare processato per plagio; un misconosciuto James Joyce che non riesce a farsi pubblicare nemmeno mezza riga; e poi ancora, soprattutto, poetastri senza nome, traduttori frustrati, editor da strapazzo, un vulcano di personaggi sonnambuli, ridicoli, mediocri, per sempre perduti in quel grottesco dedalo delle lettere fra le cui siepi da sempre si ostinano a combattere inutili battaglie contro la totale mancanza di talento. E allora, un passo alla volta, riga dopo riga, ecco che attraverso i gesti di questi spaesati burattini si delineano le forme di un unico, archetipico profilo, vale a dire l’essenza dello Scrittore per antonomasia: un individuo solo, deluso, che pur sapendosi legittimato alla genialità continua a sentirsi incompreso e prossimo alla consunzione in un già affollatissimo dimenticatoio. Perché, in definitiva, lo scrittore vivo è un falso modesto, un arrogante, un egotico di razza, e più di chiunque altro subisce con ripugnanza l’orrore dell’oblio. Soprattutto è disposto a barattare l’anima (sua o dei suoi cari) in cambio di una gloria qualsiasi, anche solo un breve abbaglio sull’adorata parola io. Insomma un tenero, miserrimo stronzo. Verrebbe proprio voglia di ucciderla, gente così.

Marco Rossari, L’unico scrittore buono è quello morto, edizioni e/o, Roma 2011, pp. 224, € 16,50.

Scopri qual è il testo uscito su “Atti impuri”, vol. 2.