Il cinema di poesia leva il suo grido
di Fabrizio Bajec

I grandi maestri del cinema di poesia non lasciano spazio al caso se quest’anno – quasi di comune accordo – hanno offerto l’uno dopo l’altro dei lavori cinematografici per così dire “di resistenza”. Così poco al servizio del nostro tempo e di ciò per cui i giornali vanno pazzi in questo momento. Queste opere creano un vuoto intorno per meglio levare il loro grido e ricordarci ciò che stiamo facendo alla nostra civiltà.
Terence Malick, Bruno Dumond, Lars von Trier, e adesso Béla Tarr.
Il catastrofismo dell’autore di Melancholia non è lontano da quello del maestro ungherese. Ma quest’ultimo si vuole ancora più perentorio e ritorna al crepuscolo degli dei, là dove Nietzsche condanna a morte ogni ideale e poi sprofonda nella follia.
Allo stesso modo, il bianco e nero si mangia tutto quello che resta ai protagonisti del film: padre e figlia vivono come bestie e hanno perduto l’anima. È un’umanità che sopravvive mentre fuori ogni risorsa è finita perché i potenti della terra hanno tutto “sporcato e saccheggiato”, tutto consumato. Più niente da mettere sotto i denti.
E sarà dunque il nero ad avere la meglio sul bianco. Gli uomini non avranno una sola parola di compassione, né per l’animale, né per il loro simile. Questi rapporti, questo scenario, ci fanno pensare al Grande Quaderno di Agotha Kristof, alla stessa durezza nella ripetizione delle faccende quotidiane, qui filmate ogni volta da un’angolatura diversa.
Dopo la fine delle liturgie, il mattino si farà nero. È quel che udiamo dalla voce esitante della figlia, semi-analfabeta, che legge da un vecchio volume. Un’apocalisse che nessuno si aspettava. Un segnale d’allarme lanciato da questo regista al suo ultimo film, per mettere un punto a una carriera scegliendo l’austerità. Così dà l’esempio, perché altri lo seguano.
Inutile ricordare che il cinema di poesia non ha fatto che sfiorare fin qui i limiti umani. Da Dreyer a Pasolini, da Sharunas Bartas a Philippe Grandrieux, a Bruno Dumont, quel che è insopportabile da vivere diventa poetico, e dunque eminentemente politico, in questi tempi in cui le storie menzognere crollano e rinascono per imballarci, lusingandoci falsamente. Solo polvere, simile a quella portata dal vento del Cavallo di Torino, che sarà il primo a digiunare, indignato come Béla Tarr, l’accusatore.