Pillole dall’URSS. Gli anni Sessanta
di Iosif Brodksij

I libri ci tenevano in loro potere, ed era un potere assoluto, forse per quel tanto di formalmente definitivo che vi è in un libro. Dickens era più reale di Stalin o di Beria.

Una preferenza istintiva ci portava a leggere piuttosto che ad agire. Niente di strano se poi la nostra vita pratica fu più o meno un macello. Anche quelli di noi che riuscirono a farsi strada nelle intricate selve dell’educazione superiore con tutte le inevitabili flessioni di ginocchia – e altri organi – al sistema, furono alla fine vittime di scrupoli imposti dalla letteratura e non poterono reggere oltre. Finimmo con l’adattarci a strani mestieri, servili o pseudo culturali – o a qualcosa di banale, come scolpire iscrizioni tombali, lavorare a un tavolo da disegno, tradurre testi tecnici, tenere libri contabili, rilegare libri, sviluppare radiografie. Di tanto in tanto qualcuno di noi spuntava sulla soglia dell’appartamento di qualcun altro, con una bottiglia in una mano, dolci o fiori o cibarie nell’altra, e passavamo la serata a parlare, spettegolare, sacramentare sull’idiozia di quelli in alto, a domandarci chi di noi sarebbe morto per primo.

Era l’unica generazione di russi che avesse trovato se stessa, l’unica per la quale Giotto e Mandel’štam fossero più essenziali del destino privato di ognuno. Mal vestiti ma non privi di una certa eleganza, strapazzati dalle mute mani dei loro diretti padroni, costretti a correre come conigli per sfuggire agli onnipresenti cani e alle ancor più onnipresenti volpi dello Stato, scassati, non più giovani, quasi vecchi, conservavano ancora il loro amore per quella cosa inesistente che è chiamata civiltà.

da I. Brodskij, Meno di uno, in Fuga da Bisanzio, Adelphi, Milano 1987. Trad. di Gilberto Forti.