Entrare nel vuoto, la poesia di Fabrizio Bajec
di Alex Caselli

Questa raccolta (articolata in tre sezioni più un’appendice, per un totale di quaranta testi) è scritta in lingua italiana, ma si tratta soltanto di una sistemazione conclusiva. L’autore, in nota, ci avverte infatti che la prima sezione e l’appendice (formata da un poemetto «sperimentale») sono nate in francese per essere solo successivamente «riscritte» in italiano. Si tratta di una buona metà del libro. Le ragioni di questo tracciato risiedono in parte nella biografia dell’autore e in parte nei contenuti. Bajec (il cui cognome tradisce una terza origine slava), dopo aver vissuto molto tempo in Italia, da qualche anno si è trasferito stabilmente a Parigi. Il francese è per lui l’idioma materno, delle origini. È La lingua ritrovata della prima sezione. In questi testi — che sono anche i più recenti tra quelli qui raccolti — una strana patina sembra avvolgere la sintassi. Un critico ha notato come in questo gruppo di poesie lo stile sia «asettico e sottilmente estraneo a entrambe le lingue» e che «il ritmo alimenta il senso come un ronzio subliminale»1. È la stessa impressione che a volte scaturisce dalla lettura dei testi di Amelia Rosselli, dove però le improvvise impennate del lapsus finiscono per restituire vigore alla sordina. Quello di Bajec, tuttavia, non è il plurilinguismo apolide della Rosselli; questo «ronzio subliminale» è semmai il pegno naturale e fecondo che egli paga ad una fantasia associativa più vasta; dove alcuni costrutti verbali sembrano emergere su altri come isolotti dal medesimo mare. Come in chi assiste con vagante attenzione ad una funzione religiosa, il lettore italiano può avvertire uno spaesamento moltiplicatore di rimandi e significati. Il canto sterilizzato di queste poesie è adattissimo allo sguardo apparentemente privo di emozioni che il poeta getta sulla realtà. Una realtà che sembra sezionarsi in più piani che solo accidentalmente si urtano venendo a contatto (come in Theravâda). L’oriente di alcune icone buddiste, l’occidente ghettizzato degli ebrei in preghiera o semplicemente la Natura, nella sua carnalità priva di orpelli e intenzioni. Tutto appare perfettamente ordinato eppure privo di consistenza. Gli oggetti sembrano collocarsi fuori da ogni contatto, come nebbia, come spettri omerici dell’Ade. Per Bajec gli esseri umani si riducono, nella loro corporeità, ad un «involucro di carne e fili elettrici» (come recitano i versi di Corpo nemico, testo che dava il titolo alla sua prima silloge). Un materialismo, questo, che sembra rimandare a certi testi della tradizione illuministica francese. Da questa verità, radiografata fulmineamente da poeta, più che da filosofo, egli si apre al grande mare mistico che molte di queste poesie avvicinano nei loro contenuti. «Forse / l’uomo abbandonerà la vittoria e la sconfitta, / per ascoltare e infine perdersi nell’essere» è detto nel finale di Al cuore esiliato.
Dopo più di due secoli di storia in cui è crollata l’illusione di un progresso, con o senza Dio, a Bajec non resta che riportare la disputa su un piano personale di rinuncia e ammettere che anche il bel giardino degli uomini, con le sue gioie materiali, intellettuali e spirituali, altro non è che un abito, un’identità vuota, una sineddoche impossibile di ciò che gli esseri umani, in definitiva, sono.
In una strofa di Sparire, una delle poesie più complesse e affascinanti del libro, si dice:

La difesa migliore è svuotare il cranio,
darne il contenuto ai gatti magri,
disfarsi dei documenti, dei bolli,
abbandonare il nome, posare anche
quello ai propri piedi e aprirsi alla gran
paura di non essere personali
autorevoli autori di qualcosa.

Per Bajec, l’Uomo, o meglio, gli esseri umani (depauperati del singolare e della sua presuntuosa maiuscola), devono dismettere quest’abito falso che li fascia di un’armatura di cartapesta, di una vestaglia da nobiltà decaduta come quella del protagonista della poesia Dordogna; e come il personaggio evocato in questi versi essi devono passeggiare per i loro limitati e corruttibili possedimenti alla luce di una «fede nuova». Una fede che rigetta schopenhauerianamente ogni istanza di ottimistico razionalismo ed ogni idealismo, in virtù di un’estasi mistica che a volte conduce al dissolvimento dell’“io” nel “tutto”, e in altri casi ad una meditazione più raccolta ed intuitiva.
Ma un dolore solido, sfumato anch’esso nella sua esposizione formale, preme sotto le figure metropolitane catturate dall’occhio del poeta-promeneur. Anche in questo caso è stato notato benissimo che «c’è un dramma, dietro questi finti idilli: una diaspora famigliare allusa nel mito di Telemaco»2. È da questa ferita che ha origine quello zigzagare stilistico e contenutistico, quel continuo inseguirsi e fuggire (come nel gioco del pac-man, evocato in una più datata poesia, qui non ricompresa), verso dopo verso, in cerca di un orizzonte assoluto in cui perdersi. A costo di recidere decisamente le radici che ci legano alla nostra storicità di individui. Da qui le due facce di questa poesia: una severità zen tesa sempre e comunque al concreto (com’è in gran parte della prima sezione o nelle Due suites successive), e una propensione al grottesco che trova compimento nel dettaglio dell’immagine becera (e qui si vedano testi come Massacro a Seaworld e Sotto il cimitero). A livello stilistico la sfida di questo poeta si gioca in vista di questa aporia: tenere sotto controllo estremi opposti, e in quanto estremi, pericolosi per una tenuta etica ed estetica dei testi. Come ha scritto Giorgio Manacorda, uno dei primi critici italiani di Bajec, nel suo caso «la pulizia formale deve tenere insieme l’altissimo e il bassissimo»3. Lo stesso autore rispondendo in un’intervista alla domanda se la sua libertà di versificare fosse provvista o meno di strumenti, così ha osservato:

Cerco di levigare il più possibile il mio verso, ma direi la riga, perché il verso finisce dove finisce il fiato, e il fiato a volte contiene l’inizio di qualcos’altro. C’è della prosa controllata nei miei versi. Una prosa purificata dai vizi di cronaca. Oggi sono più sensibile alla misura fissa4.

Da queste parole si evince poi una più recente deriva di questa scrittura in versi, che Entrare nel vuoto palesa ormai chiaramente: una poesia che tende a descrizioni prosastiche. A differenze delle precedenti prove, Bajec apre decisamente i suo versi alla narratività, e non sempre a beneficio di nessi di senso più immediatamente percepibili. Permane la sovrapposizione di diversi piani culturali, con l’esigenza di trarre nuovi sensi prospettici. Accanto a questa dimensione più fresca convive una propensione antica ad un moderato surrealismo. Come nota Edoardo Zuccato in prefazione, spesso il suo point of departure sta in quella che è definita come “slogatura surrealista”, cioè nell’articolazione e sistemazione sintattica di un pensiero in grado di sorprendere il lettore ad ogni verso. Bajec si mantiene comunque sempre sul piano figurativo, rifiutando ogni tipo di astrattismo.
Nelle Due suites della seconda sezione torna poi la dimensione della sequenza. Dico torna, perché già nella precedente silloge Gli ultimi era stato esplorato un dispiegarsi cronachistico-emotivo articolato in brevi “stazioni”. Ma se in quel caso dominava un’elegia di stampo classico-latino, in Entrare nel vuoto è compiuto un passo verso un registro meditativo. La seconda delle suites, Dall’eremo, crea un’atmosfera rarefatta di silenzio monacale, che ha tuttavia la precaria, gnomica e galleggiante leggerezza dei fiori di loto sospesi sulla superficie dell’acqua. Difficile, per una testo come questo, trovare ascendenze, forse solo Auden nelle sue Horae Canonicae ha saputo avvicinare così bene la ciclicità minima di una cronologia che si proietta e dissolve oltre il tempo.
Proseguendo si giunge alla terza sezione del libro, che riprende il titolo di un famoso film di Antonioni: L’avventura. Sono qui raccolte poesie scritte tra il 2002 ed il 2006, e dunque precedenti al trasferimento parigino dell’autore. La spinta compositiva procede su differenti binari: da un lato la lirica elegiaca (Idillio, Canzone, Tornare vincenti, Paesaggio e altri testi), dall’altro una poesia che si sdoppia tra il confessionale e il beat (Ode alla mia lavatrice, Treno d’estate, Nella casa che osservo sempre). Bajec dimostra di aver letto e assorbito la recente tradizione poetica americana; autori come Charles Simic, ad esempio, dotati — da veri bardi sub-urbani — di un’agile propensione alla rievocazione nel canto di piccoli quadri anonimi. In altri casi, pur accogliendo alcune istanze beat, Bajec dimostra di appartenere al mondo culturale del vecchio continente. Questo per la sua innata propensione ad un senso formale, quel senso della forma che spesso manca negli scrittori d’oltreoceano, il che faceva storcere il naso, all’inizio del Novecento, a un grande storico culturale e appassionato di letteratura come Huizinga. A volte, comunque, queste due tendenze sembrano armonizzarsi in piccole cronache personali. Sono testi forse meno appariscenti di altri, disposti a mezza altezza tra il racconto breve e l’elegia famigliare. Si tratta di poesie che portano nomi ci città: Gorizia, Lubiana. È probabilmente una terza via della poesia di Bajec, che sembra qui vicino più alle atmosfere di certi narratori italiani (Comisso e Bassani su tutti) che ai recenti poeti anglo-sassoni.
Chiude la raccolta un lungo e davvero originale poemetto, modulato sulla forma fissa della ballata medievale, e che vuol essere — come dichiara lo stesso autore in nota — un esplicito omaggio a «Villon, Brecht, e William Cliff». Nelle dieci strofe di questa Ballata tra la corda e il gas si consuma una parabola umana che finisce per essere, nel loculo antico della forma scelta, una perfetta descrizione di un destino contemporaneo. È inoltre l’evocazione di quel vuoto ovattato che la fa protagonista nel libro. Scrive in post-fazione il direttore della collana, Giuseppe Di Bella, a proposito di questa appendice:

Nella coincidenza totale fra disadattamento ed entropia, fra scelta lessicale e orbita compositiva geometrica, si trova lo zenit, la calma, il sollievo, la condensazione di un orrore che diviene finalmente esplicabile e accessibile (…).

Così, tra colate vivide e deformanti alla Bacon e atmosfere più pastellate di meditazione, si chiude questa raccolta poetica che, a nostro giudizio, rappresenta una tappa importante nel work in progress del suo autore.

1 Matteo Marchesini, Il Foglio, 13 luglio 2011.

2 Ibidem.

3 Giorgio Manacorda, Samizdat, giovane poesia italiana, allegato ad Annuario di Poesia 2006, Castelvecchi, Roma 2006.

4 Fabrizio Bajec, Intervista raccolta sulla Rivista Internazionale Poeti e Poesia, direttore Elio Pecora, Roma 2010.

F. Bajec, Entrare nel vuoto, con-fine, Monghidoro (BO) 2011, pp. 80, € 10.