Soffia Ponente
di Dario De Giacomo

Donna Annunziata Maresca uscì sull’uscio di casa che era ancora notte. Divaricò le gambe grosse e vigorose, si sollevò la gonna di panno fino alle ginocchia e mise le mani sugli stinchi. Accovacciata in quella posizione invocò la corrente: “Soffia Ponente. Soffia!”
Nel suo volto di quercia l’acqua del Vallone, il fiume che lambisce Nocera, aveva scavato delle forre dove raccogliere le lacrime.
Donna Annunziata aveva accompagnato al camposanto tutti i maschi della sua famiglia, con il pianto. Ma ogni notte li aveva accarezzati mentre dormivano.
Perché solo nel sonno si accarezzano i bambini, per non gonfiargli il cuore con il calore delle tenerezze.
Il pianto della donna si era sciolto nel legno e nel lino del letto di nozze, ora vuoto.
E le sue urla rapprese come latte cagliato, sulla croce, sulle bare scure portate a spalla dai becchini.
L’uscio della casa di Donna Annunziata si apriva su uno stanzone semi buio, al centro un tavolaccio dove mangiare, appoggiare la testa sulle braccia, ospitare, quando faceva buio, la stanchezza maleodorante delle mani che imparavano a firmare con il proprio nome.
La stanza ristagnava sempre di odori contadini e di pomeriggio le voci sguaiate dei bambini urlavano a memoria le litanie parrocchiali.
“Chi ti ha creato?”. “Dio” rispondeva il coro. “E chi è Dio?” e le bocche sdentate dei bambini articolavano: “Dio è l’essere perfettissimo e…”
Donna Annunziata si era chiesta spesso come fosse Dio, ma continuava a ridere mentre recitava le poste di rosario tra le vecchie del vicinato.
Lei non ci capiva molto nei libri di preghiera. Le piaceva l’odore della carta spessa che ingialliva e la copertina nera disegnata a sbalzo con un san Pietro in trono. Avevano un profumo diverso.
Guardava le figure nere di Cristo e degli apostoli nell’orto degli ulivi, e mangiava pane duro bagnato nell’olio.
Con le dita unte d’origano seguiva i contorni rossi della passione.
Com’era la passione? Lei se l’immaginava con i colori dei tramonti autunnali.
Il vicinato delle madri non si era ancora animato quando la donna uscì per sentire il vento sotto le gonne, tra le cosce.
Annunziata amava il vento di Ponente, ma era un segreto che custodiva stringendo i fianchi, con occhi gelosi che guardavano intorno.
Sua nonna le raccontava che una donna è una crepa nella terra dove mettere radici: nata con un vuoto al centro che è capace di accogliere, confortare, accudire.
Donna Nunziata pensava che sarchiare la terra e sgombrarla dalle pietre è un lavoro da uomini, di dita dure che spezzano un mallo di noce.
Aveva rigovernato bestie e uomini per tutta la vita, allo stesso modo, imparando tutto: i maschi volevano svuotarsi, le femmine essere riempite.
Era così anche per le piante. Per le rocce cave ingrossate dal fiume.
Il destino della femmina è nascere gravida dell’uomo, anche quando è destinate alla sterilità.
Lei era stata riempita dall’uomo dieci volte, e dieci volte era stata svuotata della sua piccola carne, che cercava il seno: ora tutti e dieci riempivano di nuovo la crepa sotto la terra, con tutti gli altri.
In quel richiamo di vento si sgravava di tutto il peso dei suoi ottant’anni.
Gli occhi celesti sfavillavano, e da quelle due finestre chiarissime tutte le nonne delle sue nonne guardavano il mondo, come l’avevano già visto nei secoli che erano passati su quelle terre.
Donna Nunziata aveva i colori pallidi, biondi intensi e celesti sbiaditi, delle stirpi ungheresi che anticamente erano dilagate nei campi di Nocera.
Quando la cripta del tempio non era stata ancora murata, una volta era scesa laggiù per aggirarsi tra le regine dei popoli ungheresi. Stavano sedute nelle nicchie di terra bruna.
Nell’umidità aveva intravisto i loro volti, consumati dalla fatica di resistere al tempo e conservati dal buio.
Si era sentita premere forte sullo sterno dalla pietra grezza, dal buco sterminato della cripta.
Si affrettò fuori e fu sedotta dal vuoto, per la prima volta.
Il vuoto della sua cavità riempita di vento.
Corse fino alla cava di pietre dello zio, passò oltre e si diresse verso l’Affonnatore: è questo il nome che i contadini danno ad una spaccatura enorme nella roccia.
Stretta e lunga, perennemente battuta dalle acque del fiume, che in quel punto saltano nel vuoto e affondano tra le pietre, ridotte in schegge di un verde spugnoso.
Ancora oggi quel luogo la faceva sorridere, perché quella fenditura assomigliava a una vagina.
Da allora aveva osservato tutte le donne più anziane, quando scendevano al lavatoio e si chinavano, gonfie di panni, sullo scolo delle acque. Quando nessuno le guardava, entravano vestite nel fiume, sembrava che si lasciassero cullare.
La nonna le aveva raccontato anche di una massa d’acqua più grande, che stava lontano, a Salerno, era simile al fiume ma enorme.
“Lì vanno le donne a bagnarsi, per conoscere il loro destino”, così aveva detto la nonna. Per conoscere il destino.
Ma Nunziata non si era mai spinta a Salerno.
Eppure il suo destino l’aveva conosciuto, prima nel fiume e poi sulla terra. Ora lo richiamava a gran voce dall’uscio di casa.
Dalla fabbrica di muratura spirava il vento di Ponente.
“Soffia Ponente” lo incitò Donna Nunziata. “Soffia!” e reclinò la testa sparpagliando i capelli.
Nei libri di preghiera non c’era scritto questo, c’erano il fuoco e il respiro è vero. C’era Dio ma era descritto uomo come gli altri.
Si sentì invasa di vento, sollevata come nessuna mano di maschio ne sarebbe capace.
Una presa forte, delicata, che annega dentro il corpo sviscerandolo.
Il suo destino cavo si riempiva di tutto.
In quei rari momenti si riempiva davvero di tutto.
Si sentiva perdere, mano a mano che il vento le cresceva dentro.
“Soffia Ponente. Soffia” lo incitò.