#12 Lisy senza dio
di A.Z.

Un martello pneumatico senza audio, sembra. Solo vibrazioni, spinte interne, colpi, tump, tump, regolari o non, tump, camminando piano poi forte poi piano, come in un ballo, un balletto tip-tap, senza fermarsi, scandendo i passi uno-due uno-due uno-due, sempre, senza spostarsi da dov’è, restando, gonfiandosi, pulsando sangue come spugna d’alghe viola e neanche più t’accorgi di lui – o lei: lui o lei, lui o lei, io ho due seni piccoli piccoli e la fessura in mezzo alle gambe e ho capelli lunghi e lisci e gli occhi chiari e dolci, ma lui è maschio chissà perché, cuore maschio, spugna d’alghe viola maschia che senza non vivi e non respiri. Sempre, c’è, da sempre, un pezzo di te come le piccole tette e il resto, e così non ci fai più caso e anche tu vai avanti, scandendo, ballando, tump, tump, tump, ma lui è come se non ci fosse, sai che c’è e non lo senti, come facendo finta che no, l’abitudine, l’abitudine, come tutte le cose, abituarsi uguale dimenticare, lasciar perdere, scontato ovvio, niente di nuovo

poi capita che ti fai, in vena, dentro nel tuo giù nel tuo sotto, liquido denso che scotta, polvere bianca e grigia come gesso che hai pagato a forza di marchette e inculi e leccaggi e fazzoletti sporchi di bianco e giallo, qualcosa che t’ha dato l’Albano o Michelle a seconda di chi è di turno, pusher, spaccio, fornitori di più o meno fiducia, fiducia una merda, che non c’è niente da fidarsi, che bisogna fare attenzione a non farsi fregare, che c’è chi tira su col prezzo perché due giorni fa la retata, la Stefy è dentro e c’è aria grama, poca roba sulla piazza, devi capire, Elisa Lisetta Lisy, il rischio, fattore rischio, ecco, costa di più, oggi, e no, non bastano, devi aggiungere qualcosa, l’aggiunta, l’aggiunta – una volta eravamo noi a chiedere l’aggiunta, ma non di soldi, di roba, e c’era chi te la dava, un regalo, Lisy, per te, ricordati che io sono generoso, devi ricordarti di chi è generoso, Lisy, tieni, goditela, prima scelta, è questo che conta, solo questo – una volta la davano, l’aggiunta, ora anche l’Albano il generoso chiede di più, e tu gliela dai, che se la ficchi in culo l’aggiunta, perché ne hai bisogno, ormai più importante del pane. E allora giù, dentro, in vena, ecco, così, guarda, sulla destra, sulla sinistra, poi non trovi più posto perché anche le cosce ne son piene, di buchi, e cerchi spazietti tra un puntino viola e l’altro, proprio nel mezzo, perché a riprovare sempre nello stesso vengono i lividi e la pelle si fa molle, marcia come una melanzana di vent’anni, la carne putrefatta dei morti, dei morti, e allora sezioni dividi la pelle le parti più vicine alle vene, tubi azzurri tubi blu, e alla fine lo trovi che quasi non ci speravi, questa è l’ultima, l’ultima poi basta e va a finire che ci credi davvero che sarà l’ultima, davvero, anche se per poco, il tempo che l’ago entri e spinga dentro il suo seme

cuore batte si dibatte, in silenzio urla, ed è come se non ci fosse, senza, ma solo quando guardi tutto il resto e non ci fai caso e sei distratta dal tempo dalle cose che passano veloci come auto sulla radiale, solo quando il mondo finge di non lasciarti sola e prova a distrarti in un modo o nell’altro, un modo come un altro; solo; poi il seme entra dall’ago, fluido aspro, perché se lo assaggi è dolce come zucchero filato, ma nel braccio brucia mischiandosi al sangue e allora lo senti aspro aspro che ti uccide per un momento un momento soltanto e il cuore il cuore che batte contorto, regolare o non, lui in quel momento lo senti, finalmente, ti accorgi adesso che l’avevi dimenticato per via dell’abitudine e ora c’è solo più lui lui e nient’altro, e lo ascolti mentre si ferma, lentamente, mentre se ne sta andando via, via forse per sempre, tump tump, più in basso, più giù giù giù, e lo sai che forse non è vero, che è solo un’impressione un sogno una paura, ma lui va lento, lentissimo, e sparisce, svanito come fantasma, ti trovi da sola, ora lo sei per davvero, e non c’è nient’altro, niente, solo tu e l’ago per terra sporco di sangue

poi ricomincia, torna, riemerge, è di nuovo qui, vicino, accanto, dentro, tump tump, ritmo, tump tump, regolarmente, a tratti più a tratti meno, tump tump, pompa, spugna d’alghe, tu, lui, il resto silenzio grigio piombo, tu e lui, batte e si dibatte, tump, e scopri che sei viva ancora una volta, ancora, viva per chissà quanto dove perché

ti svegli che fa freddo, in un cesso del metrò, senti l’umido e il gelo delle mattonelle azzurre arrivarti alla pelle alle ossa fin su ai polmoni e senti i brividi di febbre correrti attraverso le braccia e la testa che ronza e gli occhi pesanti e sai che dovrai anche alzarti, prima o poi, e andare a casa, tornare, camminare, viaggiare, ché ti aspettano, eh, Sandrina t’aspetta, in pensiero, piena di spavento, Sandrina che non può alzarsi da letto, ormai, avrà vomitato tutto il giorno come al solito e sarà sempre più pallida in faccia e sudata e tremante come un cucciolo, ad aspettare, aspettare che Lisy torni da un momento all’altro a portare le medicine che servono, quelle che le hanno detto di prendere all’ospedale, quelle che Lisy Lisa Elisa ha comprato ma ancora non si vedono perché Lisy è in qualche cesso chissà dove a ficcarsi aghi e se non torna a portare quello che serve sono rogne e si rischia la morte la morte, la morte che bussa alla porta perché malattie come questa non si curano, non si può, soltanto aspettare aspettare e basta e cacciare via i dolori

Lisy è brava e buona e dolce e la sua voce è di quelle che non possono dire cose cattive, non può far male a nessuno, lei, ed è una specie di madre, madre mamma sorella che dice sempre di sì, anche ai più bastardi che non lo meritano e non meritano niente, anche a loro, sì, sì, ancora sì, d’accordo, va bene, non ti lascia in mezzo alla strada come farebbero gli altri, non ti grida dietro, non può, non sa, anche le medicine che costano compra, coi suoi soldi, coi soldi delle marchette, coi soldi di inculi e leccaggi e fazzoletti sporchi compra, e ti aiuta, ecco, per quanto sia possibile, e ne tiene appena un po’ per sé, per comprarsi il poco che le serve e sono tre mesi che non paga l’affitto, ma l’affitto è l’ultima cosa, gli affitti si pagano sempre per ultimi

la sua voce, la mia voce, eh. Lo dicono tutti, tutti, che è la voce più dolce del mondo e tu va a finire che ci credi, perché è dolce credere che una nana abbia anche qualcosa di bello per vantarsi come un pavone, ci crede nessuno, se lo dici. Ti ridono in faccia. Una nana è pur sempre una nana brutta storpia pagliaccia e fa paura ai bambini e fa pena ai grandi e eccita vecchi porci che la pagano per far cose in macchina ai bordi della radiale di notte.
La strada è una pozza liscia, l’acqua della pioggia s’è stesa, sdraiata, allungata sull’asfalto come una bambina sottile e gigante e tu scivoli trascinando il corpo, una lucertola, una foglia secca, scivoli e vai avanti e non sai più se corri o vai lenta barcollando, ma la direzione, quella è giusta, come al solito, che dal cesso del metrò ci si arriva sempre in un quarto d’orologio, a casa, nel buco pieno di umido e stracci e Sandrina sul letto sudata e bisognerà pulire il vomito da per terra e dal materasso e metter via le lenzuola, ma non sai se ce la farai e sarebbe molto meglio lasciar perdere tutto e aspettare che faccia mattino e inizi il giorno, un altro, ancora, e allora sarà tutto più facile, adesso no, le forze non ci sono e il braccio brucia e tutto brucia anche il petto anche le cosce e la strada sembra sempre mille volte più lunga a una con le gambe corte la metà del normale, tutto è più alto e lungo, gli scalini e i marciapiedi e le predelle dei tramvai e ogni cosa è più difficile quando sei una bastarda nana

poi ci arrivi, a casa, ci arrivi e non sai se essere felice perché non desideravi altro seduta sul pavimento ghiacciato del cesso metrò, felice e contenta come una a cui hanno cancellato ogni merda disgrazia dalla vita tutto d’un colpo, oppure triste e piena di piangere fino alle scarpe come sempre, piena di urli e grida e stanchezza nera perché non è una casa, questa, ma un buco di fogna pieno di sporco e cose da pagare con Sandrina sul letto sudata e tremante e senza medicine antidolore dei dottori prontosoccorso. Sandrina Sandrina, chiami cerchi dici, Sandrina, sono io, Lisy, sono qui, e la tua voce ti sembra lontana e debole come quella di una vecchia e Sandrina potrebbe anche non averti sentito, forse è per questo che non risponde come al solito Lisy vieni qui, in camera, sto male, non dice nulla ma hai parlato piano e se parli piano non ti ascoltano, bisogna parlar forte nella vita non come me, forte fortissimo

e allora, anche se ci vedi appena ché la vista è appannata come se guardassi da un vetro con fuori pioggia e nebbia, anche se te ne vai avanti quasi a tastoni, come una cieca come una bambina che non sa dove andare come una storpia nana piena di roba nel sangue, vai avanti, procedere camminare avanzare, che poi tutto si riesce a dire di questo posto tranne che ci si possa perdere, piccolo stretto e basso com’è, e sei subito dentro in camera da letto e c’è puzza di sudore e piscio e umido e le lenzuola a terra abbandonate stropicciate il letto sfatto, solo più il materasso nudo crudo con la lana che esce fuori dai buchi dagli strappi dappertutto e sopra il letto Sandrina, lì, ferma immobile sfatta come il letto anche lei, silenziosa come tutto il resto, come tutto, muri e lenzuola e pavimento e la porta e i vestiti lasciati sulla sedia da chissà più quanto tempo ormai e le scarpe di pelle finta e Lisy Lisa Elisa, me, io, e la notte tardi fuori dalla finestra, tutto fermo muto sott’acqua. E la mia voce che chiama Sandrina Sandrina le medicine del prontosoccorso, le ho prese, basteranno ancora per un po’, un bel po’, hai visto come mi prendo cura di te, hai visto?, ma Sandrina non risponde non dice niente e sembra una madonna di gesso di qualche artista antico che, non so, non so, niente so, niente tranne una cosa, una soltanto, che Sandrina non risponde più, neanche se la scuoto forte, neanche se le tiro schiaffi sulla faccia fredda, neanche se mi ci sdraio quasi sopra e la abbraccio e le do un bacio sulla bocca come non ho fatto mai e piango finalmente piango ché anche questa è una cosa che non faccio mai mai mai perché ci vuole del fegato a piangere quando si ha una faccia brutta come la mia, perché quando si piange si diventa brutti e vecchi e stupidi tutto d’un colpo e io non voglio piangere, non voglio, anche quando verrebbe fuori tutto da solo e senti che ci sei ci sei quasi, tra un po’ scoppi urli singhiozzi, quando un vecchio ti prende e ti tocca e ti infilza sul sedile della macchina, quando l’Albanoride se dici di darti la roba lo stesso che pagherai domani o domani dopo perché oggi non è andata bene e i soldi non si cagano, no, o quando ti svegli di botto in ambulanza e ti portano al prontosoccorso e dalle flebo e dalla psicologa e le solite domande nome cognome, si sente bene, lo sa che dovrebbe smettere con quella roba, possiamo aiutarla, ci sono comunità apposta, ha bisogno di cure, lei, di soldi ho bisogno e che non mi guardiate con quegli occhi pieni di pena e orrore, anche di questo

da piangere, urlare, grida e urla, ma lasci sempre perdere, tu, trattieni, soffochi, dentro, nello stomaco, sotto un cuscino, perché ci vuole coraggio a piangere, coraggio, e ora ce l’hai, piena, gonfia, fradicia di coraggio da vomitare fuori, ché Sandrina è morta, morta per sempre, sul mio letto materasso lenzuola a terra, qui, vicino, attaccata, sotto di me, la mia pelle sulla sua fredda immobile di gesso, ché anche la sua vita era stata di scopi e inculi e siringhe nei cessi come la mia, che è così che ci si ammala, prima o poi, e il corpo si asciuga e si secca e lei che era così bella e bionda e alta, non come me, no, lei, Sandrina, è diventata un verme, uno scheletro, una statua di gesso per sempre. E piango e continuo e grido perché anch’io finisco così, questione di tempo, lei ha incominciato prima, più vecchia anche se non sembra, ecco, solo per questo, e piango e grido e il cuore si ferma ancora una volta come quando ti fai e resti di nuovo sola per un attimo che non finisce più e gridi e urli tanto non ti sente nessuno, perché che tu ci creda o no la differenza non c’è, non c’è, e se urli o stai zitta alla fine è la stessa cosa, se sei tu a farlo, se sei una storpia che vende il culo ai vecchi, se non riesci più a contare i segni da siringa su tutto il corpo, se Sandrina è morta se Sandrina è morta se Sandrina è morta e gridi e piangi per nessuno, nessuno, né per te né per Sandrina né per dio ché dio non ascolta una puttana che urla e piange e grida perché dio non c’è non c’è non c’è, perché dio è un vecchio che ti tocca in mezzo alle cosce in macchina tutti i giorni, è l’Albano che tira fuori dalle tasche sacchettini sigillati pieni di polvere bianca, è una siringa, un bruciore, un cesso metrò, dio è Sandrina morta, il letto sfatto, vomito e piscio a macchie per terra, dio è un sordo un pusher un taglio e un vetro appannato con fuori la notte e la gente che dorme sola.

Biografia

A.Z., monaco di confessione etilista, vive tra Pecetto e Manhattan. Sostiene di essere la reincarnazione di se stesso.
Ha scritto Rosa Screen, Orina, Lisy senza dio, Appunti per una cosa che non c’è.