Giù dalla torre d’avorio (le poesie di Claudia Siverino)
di Fabrizio Bajec

In un film indipendente degli anni ’90, intitolato La follia di Henry, il regista Hal Hartley ci mostrava come un netturbino di New York, al limite dell’autismo e della deficienza mentale, potesse trasformarsi in un poeta originale e avanguardista, con l’incoraggiamento di un amico e l’avvento della rete.
Il protagonista, Simon, a digiuno di cultura letteraria, compone un poema punk-pornografico adatto per essere lanciato su Internet, come una bottiglia in mare. I responsi si rivelano esaltanti. È il mito del genio isolato che assurge al successo per forza o per amore. Un editore lo viene a cercare, avendo colto il miracolo mediatico via etere.
Ma il film coltiva un secondo mito, quello dello scrittore che non deve fare sforzi compositivi, solo essere baciato dall’ispirazione, che è subito espressione. Mito crociano a cui oggi verrebbe spesso la tentazione di credere, per contrapporsi alla profusione di libri senza intuizione, modaioli, fabbricati e senza sale. Oggi direi trasparenti, molto leggibili e innocui, come lo sono spesso le raccolte poetiche uscite dai nostri editori più noti. La leggibilità e la trasparenza è ormai l’unica sicurezza che essi chiedono agli autori. Ma cosa avranno da dirci?
Da un altro lato, si impone un insieme di opere oscure e saccenti, auto-riflessive e seriose nel loro sperimentalismo, quando non spappolate da un abbassamento di tono pop e ammiccante, di chi la realtà vuole trattarla con una colonna sonora in sottofondo.
Ciò che manca spesso è un ingrediente controverso e inspiegabile da decenni, su cui la critica si scontra, e che forse non è una categoria critica, ma di cui i lettori attenti sanno cogliere la natura. Sto parlando di Necessità. Quella forza che il tragico possiede quando viene toccato.
Oggi, per rispondere, si citerebbero subito e molto facilmente i nomi di Milo De Angelis, e più indietro di Pasolini, magari della Rosselli.
Ma è questione di sapere se una poesia lirica genuina sia ancora possibile in tempi in cui l’urgenza è spesso solo urgenza di pubblicazione.
La giovane poetessa di cui mi occupo si era resa visibile sulle pagine dell’Annuario di poesia, edito da Castelvecchi nel 2004, e in un’antologia di due anni dopo, sempre per lo stesso editore, curata da Giorgio Manacorda. Questo critico fu il primo e il solo a prendersi la briga di scommettere su un’autrice completamente inedita, isolata e inconsapevole della propria voce, come il protagonista del film di Hartley.
Manacorda fece di più dell’amico di Simon per quella ragazzina appena ventenne. Non la spinse a scrivere, la inquadrò criticamente, ma fuori da tutte le tendenze e i tic poetici odierni. Parlò di una voce a-storica, oltre la letteratura (come lo era il poeta-operatore ecologico del film) e somigliante suo malgrado a poetesse tragiche come Amelia Rosselli e Ingeborg Bachman.
Claudia Siverino non le aveva lette, e non aveva ancora letto Sylvia Plath; altro nome che va fatto, per dovere di completezza, se parliamo di una poesia ad un tempo lirica e psichica. Una poesia che non vuole lodare il mondo, né abbellirlo, e che si impone al lettore, disorientandolo, come per una pulsione perentoria, non mediata.
Le poesie sono consegnate alla pagina con tutto il loro spazio mentale e senza il minimo compromesso formale. Direi anche (contrariando Manacorda) senza rigore, quel rigore che invece avevano le poetesse sopra elencate, interessate a dialogare con i maestri o ad includerne i materiali, dei lacerti, con un lavoro di bulino.
Allora a me viene un altro nome che evoca un contesto completamente diverso: Eros Alesi. Qualcuno ricorderà i frammenti antologizzati del giovane morto per overdose negli anni ’70, poeta senza opera sistematica, fuori da ogni cerchia letteraria e incapace di chiedere attenzione critica.
Viene in mente Alesi perché allo stesso modo della Siverino, un giovane scriveva al mondo la sua lettera d’amore disperato, senza alcun armatura tecnica o sostrato letterario, e a partire da un vuoto immenso da riempire. L’intensità e l’urgenza del dettato erano l’unica garanzia della cosa chiamata Poesia. Alesi si rivolgeva al padre violento; Siverino tira in ballo la madre assente, come una sorta di divinità negativa (la ma-Donna o donna-Ma). Entrambe le entità sono chiamate ad essere testimoni del dramma.
Alesi era nuovo e senza progetti; Claudia Siverino lo è altrettanto e come il primo sembra non curarsi del destino dei suoi scritti. Non è il maledettismo ad accumularli, ma il tragico. Per questo si sono tirati in ballo anche la Palth e la Rosselli.
Tuttavia, questi due giovani, così lontani generazionalmente e nello stile, non hanno voluto essere poeti; diversamente dalle poetesse strutturate come la Bachman, e perfino da un Dino Campana, in cui si possono rintracciare echi delle correnti letterarie dell’epoca.
La lirica di Claudia Siverino è fatta di testi che sono sempre la stessa poesia. Non sono variazioni. Sono brandelli di un’unica grande ossessione che è la sopravvivenza. E qui vengono in mente i rischi a cui Manacorda alludeva; non solo rischi formali.
Per sopravvivere, il soggetto fa uscire una materia ambigua nella forma, ambivalente nella gestione della punteggiatura all’interno dei versi o delle maiuscole e minuscole. Essendo spesso versi soli, come una personale denuncia di solitudine esistenziale, troviamo a inizio verso (e per felice combinazione) le maiuscole della grande tradizione lirica.
Seguono i trattini a fine parola che tagliano il respiro e che introducuno con urgenza la parola successiva. C’è una inquietante libertà nell’uso dei neologismi, ma non vi è alcuna intenzione di assecondare il lapsus rosselliano. L’intransigenza di questa lirica sta nel scegliere una parola che non potrebbe essere rimpiazzata da un’altra più pertinente. Il fine non è il bello. Questa poesia non è gradevole, non consola, dice il vero di una condizione psichica, senza ricerca del significato, e non tratta i significanti alla maniera dei Novissimi. È al di là dello sperimentalismo formale e della poesia confessionale più domestica.
Troviamo spesso una scissione fra l’io di chi scrive e il sé, oggettivato in una figura altra (la marionetta, la figura materna santificata, un marinaio), è una dicotomia dove l’io e il mondo coincidono miracolosamente. Come già nella Rosselli. E mi riferisco soprattutto ai primi suoi scritti, in cui troviamo un lessico di una vicinanza bizarra con quello della Siverino. Nel suo caso, parlerei di verticalità per eccellenza. Versi brevissimi, o lunghi e segmentati. La prova che si tratti di una sola poesia lo rivela anche il fatto che non compaiono mai titoli, e l’autrice non ha scelto un nome sotto il quale raccogliere il suo materiale, se non banalmente “poesie”. Sono oggetti lordi, non abili.
Allora, dove risiede l’interesse poetico di questi testi? si chiederà qualcuno. E altri critici e autori attivi se lo sono chiesto, almeno durante qualche scambio avuto con il sottoscritto, anni fa. Qualcuno avanzando anche in modo ingenuo l’accostamento con la musica pop.
Questa scrittura parrebbe un bluff, perché non dotata di un suo sistema retorico consapevole e stilizzato. Ma non siamo neppure alle prese con uno sciamano o con un’esperienza mistica. Non c’è religione. La Siverino non è una dark lady, davanti a un microfono, che assume pose lascive e dà il ritmo a qualcosa che non ce l’ha. Non aggiunge niente che non sia già scritto.
Un buco nero? L’art brut che riscatta la patologia? No.
Forse un’esperienza letteraria dove il linguaggio diventa la lavagna o la parete su cui si imprime l’inconscio, e non c’è più separazione tra l’intimo e il creato, tra la Vita e la Morte che la vita contiene (si veda la prima poesia). È un terribile invito ad entrare nel liquido amniotico in cui nessuno vorrebbe tornare. Lì sta la torre d’avorio. Per questo è una poesia disturbante, corrosiva, informe, esigente, e che dice una verità pre-linguistica, biologica, fatta di impulsi cardiaci, come la poesia semi-narrativa di Alesi.
Non è surrealismo automatico. È per antonomasia un segno di vita. Un sintomo.
Sarebbe ottimo che qualche lettore perspicace cogliesse le potenzialità e le virtù di questa scrittura. Ecco una formula migliore: la poesia di oggi potrebbe togliersi un’etichetta, per trascendere le convenzioni di genere e farsi semplicemente scrittura viva.

Poesie
di Claudia Siverino

Io non ho spazio nella
Vita
Che non sia non vita

Il marinaio prese il suo sacco
E lo portò con sé

Io non ho spazio nella vita
Che sia non vita

Mi stringe il tremore al
Collo — come una collana
D’Oro
Finge la mia peritura vita

Io non ho spazio nella vita
Che sia non vita

Non compone nella lingua, vi inganna
Il marinaio straniero
Balena la sorte — conchiude lo scherno

Io non ho spazio nella vita
Che sia non vita

Aspetto la vita che si fermi
Fino immobilità
Quale sia una giusta pena
Per chi disserta

Io non ho spazio nella vita
Che sia non vita

Il marinaio richiama le
Vele, non è lui la pena
Il marinaio giorna la fine

Io non ho spazio nella vita
Che sia non vita

Trema la labbra chi può
Perituro aspettare la ciurma?

Io non ho spazio nella vita che
Non sia la vita.

* * *

Se io incontrassi ora,
non potrei più dire,
non potrei più mordere
l’amaro spazio crudele
Poesia.
E allora liquido ogni
forma di me
per aspirare alla
significanza di rompere
parole di stomaci informi.
Ho costruito poche parole
non conosco, sono analfabeta
per desiderare di spaccare, sconquassare
le occasioni.
E torno inutile
e torno sembiante.
Ma non sono io,
nascosta tra le foglie di niente
sono la figlia di una morta
e galleggio ancora per fugare
per non sperare.

* * *

Dell’amore amo solo il desiderio
Non godo di potenza
Solo di unico egoismo.
Dell’amore ho fatto il mio amico
Si chiama amico e
Non ambisco l’essenziale.
E contorco le parole per
alterare la mia figura
Se guardate a fondo sono ancora ignobile e perversa
Sputo per terra.
Storco l’esibizione di chiarezze —
Costringo
Contraggo
Invento
Plagio:
dell’amore nego il mio accorgimento
Correrei per le strade
ma godrei da impazzire.
Non conosco amore
Solo la mia derisione:
è la devastazione di ogni segno di
pericolo.
Quest’oggi sono sorda.

* * *

Non dimentico quando
Ad accarezzarmi
La tua voce
Insisteva
Conquisto limiti
Di Spazi alterati —
Come di giostre
O una meraviglia di insiemi
Scaltra per l’assurdo del
Ridere ideatore

La ma-Donna è con te —

Insiste l’bissarmi

* * *

Non dimandare di più (nonnetta)
7-02-’02

Dormiremo nel letto
unite con le gambe tra le cosce nude
con tenere saporite giocose sgratture
Dimenticare tu potrai
e non dimandare di più
“vecchia bestemmia dalla tua bocca uscì lieve
per non farla sentire.
Ma non dimandare di più
non domandare più
per la tua malattia
per la tua amica,Tormenta:
lascia stare futili parole —
chiudi la serratura della chiave con la porta” —
Non ricordare di più
angelo indiavolato
sordo e già macchiato.
Prego per te.

* * *

Mi soffiano nel naso fumi di droghe malmesse
Come se non meritassi un buon dono:
prendi un’accetta — prendi un boia
che ti capi la testa,
la tua colpa è sempre la stessa.
Il mio viso è deformato dal gonfiore delle lacrime:
difficile
da mettere in poesia.
Ritorno indietro nel tempo e non sono neanche
sicura di me. Ho sbagliato di nuovo?
Ho sognato tre settimane?
Le ho inventate?
Le ho disegnate? Non sono un quadro
misterioso, non sono la casa dei misteri
del Luna Park.
Né Re dei Folli, Re dei becchini,
Re dei dannati.
Polonio giullare di corte.

* * *

Soffocata da ogni lamento
Scrivo sembianti colorate
spazzate dall’invidiata nascita
logiche di serpenti informi
muniti di
cappucci neri
Sono inginocchiata
da ignobile regina
da pia monachella

Spargo cenere sui capi delle bestie più avide — sporche sorelle di ventre —
Sacerdozio la messa
Sono ambigua
Profonda
Tinta viola nelle mani sporche
Devo lavare i capelli luridi
Salvare le parole

* * *

Aiutare sempre
Da una mamma, tante madri
Emozioni di un piccolo bimbo
— primitive — nel solo corpo
Qualcosa staccata da me
L’abbuffata
È parte di me
Scappare-tornare-tornare
Su corpo esanime
Svuotato dalla fame
Contro se stesso
Inerme-vago
Vagabonda nel fiume
Il sassolino nell’acqua muore estatico

* * *

Superba mi innalzo
ma l’incauta nascita
scopre un ardore nuovo
Quasi atterrita
Scappo per sensi costretti
La stanza permane
e così permane certezza —
e Ambigua è la sorte
di un cavaliere senz’anima
costretta in cavalieri
cerco un’arte
Insidia
Gelosie discusse
Un avvenire. Ora incerta
Vago
Astengo l’ingegno
“non sei più Santa
non sono santa — mai”
nel resto di un’anima sordida
in benessere incolmi
scendo Pregiumeditata
Stesa nel sole
Non contrae la sorte il mio decidere
Incontro alte
Certezze
Ma contengo l’ira
Immobile
E sfido le Maschere

Una bambina
ora alta
nel suo sentire
Stesa nel sangue
Con seni già alti