Profili
di Anna Utopia Giordano



Lidia

tecum vivere amem, tecum obeam libens
(Orazio, Ode III 9)

lento ma non troppo (54 bpm)

Lidia adesso aspetta. Chiede ai suoi sguardi, sul mondo appena schiarito, se almeno quando la luna scompare diventa probabile il suo pensiero verso di lui.

Lidia, rubando parole di stima, aveva preteso fiducia e gli aveva sempre raccontato suggerimenti e lampi, facendogli credere di essere solamente sua, così come solo del cielo notturno sono i pigmenti vellutati delle illusioni dorate. Aveva creato un finto possesso ordinario e tutto, intorno e vicino, era stato trasformato in magia alchemica; così i mesi trascorrevano sterili, con un poco di passione amorevole alla fine della primavera, quando gli atomi per energia vivace, già da soli, muovono l’animo lontano dalla notte. 
L’attraeva di quel viso solamente lo sguardo d’ammirazione. Lo assisteva nella memoria, chiedendosi come poteva essere così ingenuo da non vedere quella durezza che lei si trascinava sempre accanto. Recitava continuamente ingannando i suoi piccoli reati, si giustificava con i libri e, in effetti, è stato per via di un atteggiamento empirico che con tutti, stessa abilità e stessi trucchi, ha potuto utilizzare senza pericoli la sua inclinazione persuasiva.
Non si nascondeva mai dietro i gesti degli altri, teneva costantemente di fronte a sé le parole supponendole al comportamento. Costruiva le sue scelte indicandole come uniche modalità di andamento e non temeva di incontrare doppi legami servili in cui, lei, serviva e coltivava il successo altrui. Lidia spronava, invogliava, accompagnava verso la gloria della morte facendo della vita arte innata dei movimenti; incarnava consumandosi, a volte sopprimendosi, l’ideale che l’altro pretendeva per se stesso e insegnava ad imitarlo e riconoscerlo. Poi, a lavoro ultimato, lasciava…senza più rispondere a richieste d’aiuto: tagliava i fili che agganciavano al concreto, strofinava con unguenti senza valori e uccideva i pregiudizi che s’erano accatastati come foglie, d’inverno, vicino alle grotte e dentro i giardini.
Forse è così che Lidia aveva smesso di (ap)provare l’amore: rendendosi conto della facilità con la quale poteva scuotere e agitare quelle vite, traendone con agio sentimenti arrangiati. Lidia, trasformata in un angelo nero, sedeva su tombe mobili di carne e volontà; era una statua armonica e disinteressata, pedinava impronte trascinate di educazione sbiadita e diametri d’anatomia scoordinata poi, raggiunte, le sublimava.
Certe volte Lidia si chiedeva come appare nei ricordi: quale tessuto dell’epidermide gli altri le attaccavano contro, quali colori associavano ai suoi segni e come si può essere descritti nelle fiabe, nei sogni… così i suoi lamenti, i suoi sospiri, la lasciavano sulle giornate come sabbia mischiata a pioggia estiva… quelle piogge che respirano il fascino degli umani facendone sintesi d’incendi esauriti. 
La sua era stata un’esistenza densa, ferma solo su alcuni gradini crepati… ma il suo primo ricordo le era stato sempre vicino: fotografia nitida dei suoi primi passi in una giornata nebbiosa, assuefatta dai tuoni del novilunio.

Lidia adesso aspetta.

Silvia

What joy is joy, if Silvia be not by?

(W. Shakespeare, The Two Gentlemen of Verona)

largo espressivo (40 bpm)

Sei mio, sei mio e non puoi lasciarmi.
Silvia respira. Ripete ancora lentamente: “Sei mio, sei mio e non puoi lasciarmi.”
Si guarda forte, nello specchio, fermandosi sulle labbra e scomparendo nei suoi occhi.
Il viso è pallido, geometrico, preoccupantemente fragile.

È così bella.
Silvia è sempre stata fragile e bella, modellata dai giudizi e dall’ombra che si sentiva contro. 
Incapace di sostenersi, spende il suo corpo tendendo e volendo. 
Il suo corpo è lo stesso involucro con cui convive per convenienza, la forma che tocca senza percepire l’interno: non distingue i contenuti, se solo ne prendesse consapevolezza forse si ucciderebbe oppressa da sé stessa. 
Silvia conosce solo il desiderio, per essere ha bisogno di avere ed è, in effetti, uno scheletro senza anima e carne inspessito di proporzioni statiche, vibrazioni moderate e negazione. L’abitudine, del resto, le aveva regalato ogni cosa. 
Non conosceva niente circa ciò che credeva, preferiva un rifiuto ad una richiesta. Silvia gioca, inganna e provoca nascosta nelle sue coincidenze forzate ed eccentriche. 
Eppure, lo sapeva e lo ignorava, tutto ciò verso cui prova davvero attrazione è il disinteresse. 
Essere messa ai margini, tradita, svelata, delusa e oppressa la soffoca ed elettrizza al tempo stesso. Ama non riuscire a possedere ed ama, ancora di più, chi le regala quell’emozione, così si strumentalizza mirando ad una perfezione che vuole e spera irraggiungibile.
Silvia si ama per mancanza.
Silvia ama la mancanza.

Viola

“Love make his heart of flint that you shall love”
(W. Shakespeare, Twelfth Night, or What You Will)

larghissimo (30 bpm)

“Ti ricordi quando ci incontrammo la prima volta?
La sera soffiava nel cielo il tono della mia voce, i tuoi occhi…
E non poteva sentire nulla, cadeva intorno a noi sciolta e pura.
Riconosco i polsi, il tuo respiro… abbraccio le tue parole,
(ma il desiderio è adatto a chi sa piangere, a coloro che posso guardare)
e sorrido. Eccomi, inconsolabile e disperata, mentre t’addormenti:
ti ascolto ma non riesco a modellare l’aria per renderla simile a te.
Mi sbaglio? Sei aria e sei tutto (frammenti — forse note), come me.
Essere te, così solo potrei esprimerti. Invece, non esisto
e non posso farti esistere, per questo posso amarti.”

Viola non conosce altro.