Jonas nuca sottile
di Ade Zeno

A detta di molti si tratta soltanto di un’ombra, o meglio ancora di uno scherzo della luce. Secondo altri, invece, è un compagno come tanti, magari meno loquace del normale, ma dopotutto a cosa servono tante parole? Segue in silenzio ogni mio spostamento, si mimetizza con la schiena, baipassa i muscoli, dribbla abilmente il gonfiarsi e sgonfiarsi dei respiri senza che io possa scovarlo, afferrarlo o anche solo fermarlo un istante per chiedergli ragione dei suoi obiettivi. C’è chi dice che mi segue da quando sono nato, che è venuto fuori insieme a me, dalle viscere, una specie di fratello nascosto, un’appendice fantasma col mio stesso sangue, il mio stesso fiato, la mia stessa voce, anche se tace. Ma a essere onesti sembra assurdo, per non dire grottesco, che solo ora, dopo trentadue anni, che solo adesso me ne sia reso conto e mai prima. I bambini analizzano il mondo con molta più attenzione rispetto agli adulti, e posso sostenere con fermezza di non aver mai avvertito, nel corso dell’infanzia, il disagio prepotente della sua presenza.
Non escludo che i più, fra le persone che rispondono quando pongo il problema, lo facciano con l’intento di deridermi, un pretesto qualsiasi per vincere la noia di un bar di periferia. Nessuno mi prende sul serio, in fondo, anche se ogni volta faccio finta di niente e magari sorrido educatamente quando qualcuno grida all’improvviso: «Ehi, Jonas, che accidenti hai dietro le spalle?». Che accidenti ho. Se lo sapessi non mi ostinerei a domandare in giro se qualcuno è riuscito a scorgerne il volto, la fisionomia, anche un piccolo insignificante tratto somatico; il colore dei suoi occhi, per esempio, ammesso che li abbia. Tutti potrebbero vederlo, se solo volessero. Tutti tranne me. Questo è inaccettabile.
Staziona alle mie spalle, si avviluppa a pochi centimetri dalla mia nuca sottile (anche per questo la gente mi prende in giro: per la mia nuca, che sembra quella di un uccello, esile e lunga com’è), per poi sparire in mezzo istante non appena mi giro, e la scorgo a malapena con la coda dell’occhio. Potrei essere l’uomo (l’uccello) più veloce del mondo, non servirebbe a nulla. Lui mi giocherebbe comunque. Prova con lo specchio, prova un po’, via. Ho tentato, almeno un milione di volte, ma niente, è troppo furbo. Dopotutto non chiedo molto, desidero solo vederlo in volto, capire una volta per tutte se è davvero parte di me, della mia carne, o se si tratta di un estraneo come mille altri.
Ho paura, non è bello sapersi perseguitati, né provo piacere nel farmi deridere. Ma credo che anche questo faccia parte del gioco.
Cos’altro aggiungere?
Non mi ha ancora fatto del male, questo no.
Per ora ho soltanto perso il sonno.