Nader Ghazvinizadeh, Metropoli
di Fabrizio Bajec

Ecco un bel libro di poesia italiana, di un autore che non cerca la letteratura e non si fa l’emblema di niente. Le sue scelte sono precise, anche se mai dichiarate, per non rivendicare un’appartenenza qualche genere. Nader Ghazvinizadeh (1977) è davvero cittadino del mondo, cittadino di tutte le città che finiscono per assomigliarsi. Se oggi si era a Londra, si dimentica il nuovo atterraggio ad Amburgo, a Copenaghen, o a Milano. Si perde la nozione del luogo. E questo poeta reagisce a tale anonimato trovando la poesia di un mondo vecchio dentro a quello nuovo. I suoi personaggi prediletti sono i migranti, gente che soffre lo spostamento e coglie le differenze. Persone ancora sensibili al passaggio, al cambiamento. Non sono i viaggiatori con auricolare, in giacca e cravatta, che guardano annoiati l’orizzonte, dietro a una vetrata di aeroporto. Sono uomini che resistono a qualcosa di schiacciante, e spesso devono bere per farlo. Come nota anche Gianmario Lucini nella sua postfazione: ripetute sono le allusioni all’alcol (anice, acquavite, vino, verbi come bere, la figura dell’oste). Ciò che rende questo libro più unitario del precedente Arte di fare il bagno sta nella coralità delle voci che si levano per dire la propria voglia e rispondere. I versi cominciano sovente con l’incipit “viene voglia di…” e sono poi gesti rassegnati o di ripiego, perché la città è pesante e fa ammutolire. Nella prima poesia la città spinge a vestirsi di nero. Qui si mette l’accento su un “invece” che fa tutta la differenza con il modo disinvolto di urbanizzarsi che altri avrebbero.
Il poeta non è estraneo a questa fauna, usa quasi sempre il “noi” o il “ci si”. Ma essendo di origine iraniana, gode di una leggera sfasatura che gli permette di non sedersi e non sentirsi comodo in tempi di trasformazioni sociali. Ci tiene a registrarle. E la sola volta in cui dice “io” è per confessare di sentirsi vecchio. La poesia viene da questo mondo mitico delle campagne e delle osterie scomparse. E’ la poesia che resiste, come il mare invade la città. E stupirà se ci azzardiamo ora a dire che è una poesia non solo civile, roversiana (Roversi era il prefatore del primo libro del nostro autore), ma lirica. Non nella forma, bensì nella sua tensione alla resistenza, in quei salti telegrafici  e accostamenti surreali (da Italia sepolta sotto la neve), immagini pregnanti come: “La donna viene con l’uomo cane/ che scambia il ventre con l’otre/ viene la fame e il nebbione/ la sera il lago si fa di marmo”.
Ghazvinizadeh, più che un cineasta alle prese con un montaggio in bianco e nero, pare un compositore che trova i suoni giusti e li campiona. In questo è molto moderno, pur continuando a usare materiali poveri, rustici, come la sua lingua. Perciò risulta difficile accettare il termine “lirico” per la sua poesia. Ma un secondo accostamento potrebbe spiegare in che senso egli sia lirico. La gioia del listare dettagli, di questo accumulo di scorci e piani senza articoli, ci ricorda il poeta rottamaio Lamberto Sabatini, che trova il suo lirismo nella forza oggettuale della nominazione dei materiali. Vi è qui la medesima  sparizione dell’io poetico, a favore dell’elencazione bruta. Questi due poeti si vogliono outsiders in tutto e per tutto, come lo è la lunga fila dei poeti operai dagli anni ’70 in poi, che non a caso parlano meglio dei mutamenti antropologici, rispetto a molti poeti-cittadini-imborghesiti e probabili lettori attenti dei nostri “minori”. Ghazvinizadeh fa un passo in più con il nuovo libro. Sparisce il mito americano del jazz e della generazione dannata, e rimane la musica triste dei sassofoni a fare da bordone a tutta la raccolta. È come se avesse integrato quello che gli serve, per proiettarlo sul fondo e creare una prospettiva funzionale al suo dettato. Non è più il beat (l’impulso) che lo interessa, ma la testimonianza.

Nader Ghazvinizadeh, Metropoli, edizioni cfr, Piateda (SO), pp. 45, € 8.00.