Le ore nude
di Ade Zeno


Sono le ore, le ore nude, a spaventarmi più di tutto, dice il vecchio deviando gli occhi altrove, e dove sia questo altrove nessuno lo sa, sicuramente in un punto imprecisato delle geografie astrali, oltre i muri e le serrature e i vetri appannati della stanza, oltre l’insegna gigante che sussurra il suo nome al traffico del Corso (“Grande Esportazione Vini da Erminio”), dalla parte opposta degli abissi nascosti dentro i riflessi di bottiglie antiche millenni. Lo sguardo fa fatica a concentrarsi e preferisce disperdersi, ritrarsi, abbandonare le pupille al niente piuttosto che incontrarne altre – le mie – perché le ore nude (o morte, o vuote: il vecchio snocciola una manciata di aggettivi cercando il più adatto, poi torna a quello con cui aveva iniziato), questa particolare forma di tempo spogliato non trascina con sé soltanto l’angoscia delle lancette immobili, ma anche un ostinato gioco di gesti rigidi, diffidenze, sospetti. E dunque ci mette un po’ a far uscire le parole, a trovare la forza di rispondere alle domande (goffe, inesperte) di un avventore inatteso che senza chiedere il permesso è apparso all’improvviso come fanno i temporali estivi e i fantasmi di mattina presto.
Più che un’osteria (no, una piola: dalle nostre parti un tempo si chiamavano così) il regno di Erminio sembra il laboratorio dimenticato di un bottigliaio circense, il ripostiglio polveroso in cui le marionette di teatrini siderali vanno a rifugiarsi non appena lo spettacolo è finito e anche gli ultimi spettatori riprendono la strada di casa. Varchi il confine dell’ingresso e scivoli in uno sconquasso di polvere, vetri, tappi, orologi guasti, chincaglie; perfino qualche articolo di giornale appeso col nastro adesivo ai bordi del bancone (è lui stesso a indicarmi la breve rassegna stampa di cui sembra andare tanto fiero: “Ogni tanto vengono quelli del giornale e mi chiedono di raccontare…”) che sfoglio senza leggere, ma accompagnando l’altalena delle dita con incoraggianti cenni d’assenso. Ci siamo soltanto noi, perfetti sconosciuti che recitano due parti precise: io quella del turista incuriosito, lui quella dello schivo padrone di casa. Versa un bicchiere di barbera che accolgo sorridendo al mio stomaco vuoto mentre tento maldestramente di strappargli qualcosa dalla bocca, notizie di un passato che non conosco, tracce del suo esserci, del suo essere stato, forse da sempre, qui. Le scaffalature in legno ci osservano dall’alto – eccoli, i burattini: un esercito disadorno di calici e fiaschi sigillati –, assistono senza parlare al meno loquace tra gli incontri possibili, alle nostre frasi provvisorie, smozzicate, con ogni probabilità ridono di noi (no, di me), mentre il vino scende nella gola e la sera si abbatte sulla strada fuori.
“È tanto che lavora qui?” chiedo alla fine. Erminio insiste a puntare gli occhi dove nessuno li potrà mai incrociare, poi risponde. “Servo vino da quarant’anni. E prima di me mio padre, e prima di lui qualcun altro, e prima ancora chissà chi altro. Dal millenovecentootto, sa? Non ero ancora nato e questi muri già esistevano.”
E io, dov’ero io mentre le pareti e gli infissi e i trucioli del regno di Erminio già ululavano? Giocavo a palla nell’ombra della pancia di una mamma anche lei ancora troppo astratta, ipotizzata? Correvo a perdifiato nelle fantasie di una bisnonna neonata? Getto occhiate agli scaffali muti e intanto immagino che non io, ma almeno loro, loro sì, ci sono sempre stati.
“I clienti vanno e vengono” continua Erminio, e un attimo dopo – con un velo di malinconia che gli assedia le iridi – precisa: “Soprattutto vanno.”
E dove vanno, domando.
“Dove vuole che vadano. Dal Creatore. I giovani mica ci vengono in un posto come questo, è già tanto se sanno che esiste, che esisto. Le persone muoiono, sa? E morendo, sgusciando via, scappano.”
È un bel verbo, penso, sgusciare: si accorda benissimo ai movimenti del vecchio (gli scatti furtivi delle palpebre, i nodi ruvidi dei polsi che accarezzano l’aria sparigliando l’odore umido del legno), e allo stesso tempo sembra perfetto per descrivere l’impressione di smarrimento che si prova a posare lo sguardo su questi tavolini abbandonati, sulle sedie capovolte, sulla segatura depositata negli angoli in ombra. Le anime sgusciate soffiano, i residui dei loro respiri volteggiano rimbalzando tra finestre e pareti, lottano contro l’oblio, provano a farsi ricordare da chi rimane. E ormai, per Erminio, parlare con le anime invisibili è diventata una specie di abitudine, perché sono soprattutto loro, adesso, a prendere posto al bancone per farsi offrire da bere, e a forza di stare soli in mezzo agli spettri si finisce per confonderli con fiati vivi, vicini, fraterni amici con cui superare senza paura gli istanti scarnificati dell’attesa.
Il bicchiere è quasi vuoto, lo stomaco chiuso, finalmente gli occhi del vecchio si posano sui  miei. “Vede, l’importante è non farsi sconfiggere dalle ore nude” mormora prima di congedarmi mentre il frastuono del traffico fuori ricomincia a stendersi come un lenzuolo d’amianto sopra le nostre voci. “Sa, quelle in cui non hai niente da fare, e continui a fissare la porta chiusa.”
Vorrei rispondere, trovare le parole giuste per spiegare che conosco bene quella sensazione, quell’aspettare irrequieto, quelle particolari e amorfe forme di ore, ma lui mi precede, fa la mossa per primo, strizza le palpebre, si tocca il naso con un dito, poi ride:
“Però lei è giovane, eh. Non può mica capire.”

[pezzo uscito il 22 aprile sul settimanale Vita]