Chet Baker: vent’anni di stupefatto ascolto
di Ade Zeno

La sera del 29 aprile 1988, davanti alle svariate centinaia di persone che gremivano la Grosser Sendersaal di Hannover, sarebbe stata scritta una delle più belle e trascinanti pagine del jazz (della poesia) mondiale, pagina lunga meno di due ore, ma ormai incontestabilmente eterna, tanta è la meraviglia che ancora oggi riesce a muovere in chi ha l’avventura di imbattersi, pure distrattamente, anche solo in un breve passaggio di quella storica registrazione. The last great concert, fortunatamente immortalato e facilmente reperibile, è un monumento alla perfezione emozionale, un trionfo di leggerezza esplosiva. Soprattutto è il testamento in sibemolle dell’immenso, straordinario poeta che riuscì a essere, forse suo malgrado, Chet Baker. Lo stesso artista che appena due settimane dopo, il 13 maggio, volò giù da una finestra del Prins Hendrik, un albergo economico situato a due passi dalla stazione centrale di Amsterdam, schiantandosi per sempre su un marciapiede deserto. A vent’anni da quel drammatico epilogo ci piace l’idea di offrire un tributo alla sua memoria puntando lo sguardo – l’orecchio – non sull’anniversario della morte, ma appunto su quello del grande concerto tedesco che più di qualsiasi altra rievocazione ha ora la forza di restituirci la potenza lirica di Chet in tutto il suo splendore. Uno splendore intaccato dagli eccessi, dalla disperazione romantica di un essere debole e farabutto, soprattutto dalla droga, l’imprescindibile eroina che affiancò con demoniaca onnipresenza ogni suo gesto, ogni sua parola, trasformando lentamente un corpo agile e leggero nell’involucro consumato e senza denti che adesso ci guarda con aria assente dall’altra estremità di uno scatto in bianco e nero. Lo stesso corpo disfatto che, travestito da cowboy – giubbotto di pelle con le frange e stivali a punta – salì barcollante sul palco in mezzo all’orchestra sinfonica della Nord Deutscher Rundfunk, un oceano di musicisti, gli archi da una parte, la big band dall’altra, e lui al centro, solitario e sperduto come un piccolo dio. Evento preceduto da cinque giorni di prove, a cui tuttavia Chet non partecipò, come al solito restio a rispettare scadenze e appuntamenti, come sempre rapito e distratto da altro, dalla sua vita compulsiva e sconclusionata, incapace di contemplare altre regole all’infuori delle proprie. Rassegnati all’idea di un pietoso fallimento – né, del resto, sarebbe stata la prima volta che Baker si prodigava in imbarazzanti performance da tossico incapace di governare lo strumento – gli organizzatori decisero in extremis di registrare la sezione d’accompagnamento nella speranza di fargliela ascoltare – e memorizzare – quanto prima. A due ore dall’inizio non erano in pochi a prevedere disastri, tanto più che, a quanto pareva, lo stato fisico del trombettista versava in pessime condizioni: le gengive infiammate, i denti inferiori doloranti, e l’umore a terra per mille ulteriori motivi. Ora, per comprendere cosa iniziò a succedere centoventi minuti dopo, dobbiamo solo inserire il cd in questione, schiacciare il tasto play, e fermarci ad ascoltare. L’attacco è affidato a un classico di tutti i tempi, quell’All Blues che alla fine degli anni Cinquanta segnò per sempre i destini del jazz in un’incisione pilastro, Kind Of Blue, firmata Miles Davis; quarantaquattro secondi di intro ammininistrati da piano, basso e batteria, l’applauso del pubblico scoppia al decimo, ci fa capire che Chet è entrato in scena soltanto adesso, composto battimani di benvenuto, poi di nuovo spazio alla ritmica, un tappeto lieve, misurato, in attesa di svelare il resto. Le prime note di tromba arrivano in leggero ritardo rispetto alle regole della battuta, una pausa di troppo che sembra lunghissima e per mezzo istante proviamo a immaginare che sì, sta per andare tutto a rotoli. Timore infondato, senza ragion d’essere, il fiato di Baker si è solo preso il suo tempo, e a partire dal primo do diesis non smetterà più di modulare meraviglie. Imposta il tema, lo fa suo cambiando qualche accento, insegue concentrato l’accompagnamento che nel frattempo si è gonfiato, moltiplicato con l’aggiunta della sezione di fiati in sordina. E quando, concluso il tema, i primi cenni d’improvvisazione iniziano a farsi strada con la rotonda dolcezza del tutto simile alla voce di un flicorno, veniamo definitivamente conquistati dalla certezza di una rivelazione progressiva. Il resto è un susseguirsi di poesia e adrenalina, che prende il via dai nove minuti di My Funny Valentine in cui la voce flebile e rotta di Chet si alterna con un lunghissimo e malinconico assolo mescolato alle fantasie degli archi, per poi toccare il cielo con i ritmi incalzanti di classici della fibrillazione come Well You Needn’t, Look For The Silver Lining, Conception, e la mirabolante Sippin’ At Bells che si guadagna uno scroscio di applausi senza fine. Un’ora e mezza di stupore assoluto, finita la quale è quasi impossibile non provare l’impulso di tornare indietro e riascoltare tutto daccapo, o almeno frammenti di quel tutto, i passaggi più profondi, le tante, tantissime sequenze da imparare a memoria e da imprimere per sempre nel nostro bagaglio genetico. Al termine di quella sera Chet sapeva bene di aver dato il meglio di sé, così come era perfettamente consapevole di aver consumato ogni molecola spartendo la propria arte con il caos dell’autodistruzione. Le cronache raccontano che pochi minuti dopo essere sceso dal palco salì al volante della sua Alfa devastata per raggiungere il più in fretta possibile i compagni di sventura con cui condividere dosi da iniettare nelle vene. Aspetti che fanno parte integrante dell’agiografia di un mito, e con i quali, purtroppo, non è possibile evitare di fare i conti. Per fortuna è la musica a farla da padrona, e con lei la genialità di chi ha saputo e voluto interpretarla attraverso gesti unici. E proprio a lei, alla sua astrale bellezza, dedichiamo oggi un timido saluto, dopo vent’anni di silenzio, e di devoto, stupefatto ascolto.