poetry slam – Sweet Home Chicago
sergio garau

Premesso che Poeti in Lizza (www.poetinlizza.it) è stato un buon torneo di poetry slam svoltosi questo inverno a Torino a cui ho partecipato e che ho supportato con piacere, torneo per il quale mi sono complimentato con gli organizzatori non solo per il successo di pubblico, ma anche per la formula proposta; premesso anche che seguo, partecipo e mi interesso di poetry slam dal 2002 in giro per l’Europa, mi permetto qui una riflessione che approfondisca qualche punto della polemica di questi ultimi giorni

http://www.absolutepoetry.org/Lo-Slam-non-e-la-puttana-di

http://www.facebook.com/notes/alessandra-racca/offrimi-una-birra-lello-dai/10150121195313473

http://www.bravuomo.it/2011/03/06/pisciare-col-culo/

http://www.guidocatalano.it/?p=904

– anche perché ho il sospetto che alcuni interventi, specie nei commenti, anche di persone che stimo, risentano di una conoscenza parziale dell’argomento.

Cominciamo con un’ovvietà su cui si è d’accordo: lo slam non è proprietà di Lello. Lello Voce, figura fondamentale e di riferimento per lo slam in Italia, la cui importanza in merito non è in discussione, non ne è il padre padrone, né lo vuole essere. Il padre, lo “slampapi”, è, com’è noto, Marc Kelly Smith (www.slampapi.com), muratore di Chicago, Illinois. Mr. Smith, dopo aver inventato il poetry slam non se ne è impadronito, non l’ha brevettato, non ci ha aggiunto né ©, né ™, né ®. Ci avesse aggiunto un paio di quelle consonanti a quest’ora sarebbe milionario di dollari, ma non l’ha fatto. E ha fatto bene.

Le ragioni di questo gesto sono piuttosto chiare e disseminate qua e là in dei libretti pubblicati anche dallo stesso Smith – non certo bibbie verdognole alla Gheddafi – si tratta più che altro di manuali fai-da-te come “Stage a Poetry Slam: Creating Performance Poetry Events” o “Take the Mic” o “The Complete Idiot’s Guide to Poetry Slam” e altri.

Chiariamo subito: Marc Smith non dice che un poeta deve brucare solo corone di alloro. Se si va sul suo sito, (www.slampapi.com/store/), ci si accorge che l’indirizzo della pagina principale non si chiama “home”, ma “store”, non “casa”, ma “negozio”. Già nella schermata iniziale, infatti, si possono acquistare articoli come mp3 a 1.99 $ e sulla sinistra c’è un simpatico carrello della spesa (shopping cart) che ti ricorda che ancora non hai comprato niente. Mr. Smith fa molte performance in giro per il mondo e, giustamente, si fa pagare.

Essendo che l’ha inventato lui (non ha inventato certo la gara di poesia, ma ha inventato questa forma di gara di poesia), è utile andarsi a vedere quel che dice mr. Smith sullo slam. Qui (http://www.slampapi.com/store/node/1384) Marc Smith dice – e traduco – che lo slam non appartiene a lui, ma alle migliaia di persone che hanno dedicato i loro cuori, la loro energia, il loro tempo e il loro denaro a questa forma interattiva di presentare la poesia a un pubblico. Insomma lo slam appartiene a chi lo porta avanti e lo fa crescere. Marc Smith, tuttavia, spera che il poetry slam continui a crescere in accordo con un suo pensiero, una sua semplice filosofia. Questa filosofia – afferma – è considerata la struttura portante di quella “che noi chiamiamo Slam Family”. Chiariamo: quando Marc Kelly Smith dice “noi” lo fa con cognizione di causa, non è un noi maiestatis ed è ben lontano dall’atteggiarsi ad autoritario padre padrone.

(Ricordo che quando Marc Smith si presenta: –Hi! I’m Marc Kelly Smith!- il pubblico è chiamato da lui stesso a rispondere: –so what?- Il che all’incirca equivale a –Sono Marc Kelly Smith! –E ‘sticazzi. È il suo slogan ufficiale, ce l’ha sulla carta da visita).

Quando mr. Smith dice “Family” intende la comunità, l’insieme di comunità che compongono lo slam statunitense e internazionale – usa la parola “Family” per esprimere un legame sociale, cooperativo e di reciprocità forte, instaurato prima di tutto da quel suo dono iniziale. Le parole scelte da Smith possono piacere o meno, ma hanno un senso.

In tutte le scene slam che ho visto o di cui ho sentito dire, in modi certo variegati e diversi, a volte anche con non indifferenti contraddizioni, si tengono comunque bene in considerazione le speranze espresse da quest’uomo, che all’idea di slam come rete di comunità ci crede. E lo dimostra il fatto che per tener fede a questo principio lo slam non l’ha brevettato, rinunciando a milioni di dollari.

(Per “Family” non si intende un esercito schierato e uniforme, ma un complicatissimo organismo. Per chi ha voglia, tempo e interesse di approfondire le differenze del poetry slam transnazionale, britannico e statunitense in particolare, c’è una tesi di dottorato di Helen Gregory del 2009, leggibile qui http://www.hgregory.co.uk/12.html. In quella ricerca si problematizzano molti aspetti riguardanti le comunità, gli individualismi, l’identità dello slam e negli slam. Si tratta anche di uno studio sociologico sul potere nella scena, studio che adopera significativamente i pensieri di Pierre Bourdieu e Antonio Gramsci. Lo cito perché è un lavoro che analizza scientificamente il poetry slam come fenomeno sociale prima che artistico, anche per quanto riguarda le problematiche relazioni tra slam ed establishment culturali).

Ma torniamo ora a quel pragmatico muratore idealista che non voleva essere milionario, o magari sì, ma non così, e ai suoi semplici principi. Mr. Smith la vede così:

-Nel rispetto dei propri interessi ogni slam dovrebbe essere libero da vincoli con ogni altra organizzazione esterna e responsabile di fronte a nessun’altra autorità oltre la sua comunità di poeti e pubblico.

-A nessun gruppo, individuo od organizzazione esterna dovrebbe essere consentito di sfruttare la “Slam Family”.

-Lo slam è stato concepito come un regalo, e regalo dovrebbe restare, liberamente passato di città in città.

Come egli stesso poi conclude, questi suoi non sono versetti satanici da rispettare alla lettera, già il fatto che usa “should” e non “must” lo indica. Idealista sì, ma pur sempre pragmatico, mr. Smith sa bene, per esperienza, che tra queste idee e quella realtà che vede ambiziosa, competitiva e ricca di appetiti individuali c’è differenza, e che l’insorgere di conflitti in merito è stato ed è quasi inevitabile.

Ciò detto, si tratta di principi di cui chiunque organizzi uno slam, o un “evento slammistico”, deve tenere conto. Gli organizzatori di Poeti in Lizza li hanno interpretati in modo pressoché ineccepibile nel corso di quel poetry slam torinese questo inverno, ma purtroppo sembra proprio li abbiano ignorati per questo “primo SlamBook”.

Grazie a dio non ho fatto giurisprudenza e mr. Smith è ben lontano dall’essere un legislatore vecchiotestamentario, tuttavia vale la pena riflettere un attimo su cosa significhi in pratica quello che dice e perché è condiviso da così tanti (lo ripeto, in modi diversi, ma pur sempre con un minimo comune denominatore che resta saldo in ogni dove – ce ne fosse bisogno si faccia pure una rapida ricerca per gli slam di Europa e America).

Prendiamo il caso di un poeta tedesco che conosco, che lavora per una multinazionale del gas e che scrive ed esegue testi molto cupi e belli sotto pseudonimo. Il suo lavoro è completamente separato dalla sua attività di slammer e poeta: il fatto che lavori per una multinazionale del gas è un fatto suo. Se lavorasse come marketing-assistant per una grande casa editrice di giorno e andasse agli slam di notte sarebbe per me lo stesso. Fatti suoi. Ovvio.

Prendiamo il caso di Saul Williams, punto di riferimento per molti poeti, slammer, performer, artisti spoken word, attori, rapper, musicisti … Mr. Williams ha prestato un suo pezzo a uno spot di una multinazionale delle calzature sportive e a un popolare videogioco di basket.

In questo caso non sono solo fatti suoi: prestare una propria produzione alla Nike per una pubblicità è un azione pubblica che ha un significato. Considerando anche il testo, “List of demands”, la mia discutibile opinione è che ha fatto bene. Dal mio punto di vista non tanto e non solo perché ci guadagna soldi, ma perché Mr. Williams riesce così a introdurre la sua poesia (o arte in genere) nel mainstream e ad attirare a sé un pubblico maggiore, il che rientra peraltro nella sua poetica (The Inevitabile Rise and Liberation of Niggy Tardust è l’indicativo titolo di un suo album).È un’operazione molto rischiosa e difficile quella di Williams: il rischio è che invece di usare il mainstream per veicolare la sua poesia, sia il mainstream ad abusarne limitandone la libertà d’espressione.

 

Comunque Saul Williams anche qui distingue nettamente tra la sua prestazione occasionale per la Nike e il circuito dello slam.

Williams è diventato una figura di spicco del panorama artistico mondiale a partire da una sua vittoria del poetry slam nazionale americano e dal suo film “slam” premiato al festival di Cannes e al Sundance;

Williams ha anche partecipato al Def Poetry Slam, programma che Marc Smith critica, ma ciò non toglie che Williams rifiuterebbe di partecipare a uno slam (o “evento slammistico”, inserito in un circuito di slam) che prenda spunto dalle qualità dell’ultima scarpa da ginnastica (o romanzo) buttata sul mercato, per celebrarla. Perché gli ideali di mr. Smith hanno dei limiti, ma ci sono anche dei limiti al modo e alla misura in cui la realtà li può compromettere.

Ovviamente non è un problema di inventarsi nuovi format per lo slam, usare gli attori ad esempio già si fa: il Dead or Alive Slam oppone poeti viventi ad attori che interpretano poeti morti con un grande successo. Una delle radici del problema, in Italia in particolare, in questo panorama culturale desolante, sono i soldi. In Germania la scena riesce ad autofinanziarsi, l’ingresso medio a uno slam costa 5 euro, per non parlare della Svizzera dove salgono all’equivalente di 10, 15 euro; in Italia, invece, il pubblico, tranne rare occasioni, quando c’è (ma agli slam in genere c’è) entra sempre gratis. Dopo il successo del torneo di Poeti in Lizza, del quale gli organizzatori sono riusciti a coprire a mala pena le spese, uno di essi mi diceva che erano stati invitati a organizzarne uno in un teatro con ingresso a pagamento. L’invito è stato declinato, ritenendo che in Italia non c’è un pubblico abituato a pagare per ascoltare poesia. Capisco e conosco la situazione, eppure, poco oltre le Alpi, come si pagano i concerti e gli spettacoli, così si pagano anche gli slam. Se il pubblico (la comunità) non paga l’ingresso e non acquista neanche le sue produzioni di CD, DVD, libri etc. non dà autonomia economica alla scena e cresce il rischio, se non la necessità, per sopravvivere, di dipendere da altro. E qui gli MC dovrebbero stare molto attenti, perché anche se compromettere l’assoluta indipendenza dello slam è pressoché inevitabile, c’è dipendenza e dipendenza, e bisogna avere o trovare un limite e un discrimine. Bisogna avere o trovare un limite e un discrimine almeno se si vuole usare la parola slam col suo significato, per farsi capire dagli amici dello slam tedesco, svedese, polacco, italiano etc.

Un paio di anni fa un tipo da poco sulla scena di Berlino aveva avuto l’idea di proporre uno slam finanziato dalla campagna elettorale dell’FDP, il partito dei liberali (tra l’altro è il partito pro ricconi e pro squali della finanza). L’idea mi era sembrata fuori di testa, e non solo a me: quello slam era saltato perché nessuno o quasi ci aveva voluto partecipare, nonostante i generosi gettoni di presenza. Il 23 settembre 2009, a meno di una settimana dal voto, in occasione delle elezioni, si era fatto invece uno slam “reden an die nation” (“discorsi alla nazione” o “parlare alla nazione”), uno slam in cui ogni poeta diceva la sua (in un paio di casi con belle satire a destra e a manca, all’FDP e alla classe politica in genere), uno slam sponsorizzato da una radio locale indipendente. Qui un estratto:


 

Per essere ancora più espliciti l’FDP, con la sua sponsorizzazione, anche se avesse lasciato un’apparente autonomia di facciata ai singoli poeti, poneva comunque in essere un dichiarato sfruttamento dello slam da parte di un’organizzazione esterna –. La responsabilità del poeta e la sua funzione sociale, infatti, invece che volgersi al suo pubblico e alla sua comunità, si sarebbero volte a quel partito giallo e ai suoi fini, stravolgendo il concetto di slam. In quel caso, fosse andata così, mr. Smith avrebbe avrebbe rinunciato a milioni di dollari invano e meglio avrebbe fatto a brevettarselo. Nel caso del Politslam, “reden an die nation”, invece, la sponsorizzazione della radio, pur avendone un ritorno di immagine e pubblicità, rispettava i principi di mr. Smith, era insomma un compromesso accettabile, quasi auspicabile, in quanto grazie a quella si era riusciti a invitare a Berlino poeti da tutta la nazione (e anche da Austria e Svizzera), offrendo loro un discreto cachet. Lo sponsor era lì a servizio dello slam, e non viceversa.

Concludendo, spero con questo intervento di aver chiarito perché l’uso della parola slam (e del circuito/comunità raccoltosi intorno a questa pratica) ai fini della promozione del romanzo appena uscito di una grande casa editrice sia un problema. Se si vuole sviluppare un circuito di Business Poetry ci si rifaccia alla Business Art di mr. Warhol, non allo Slam di mr. Smith. Lo slam, infatti, è stato ideato e regalato col fine di celebrare una comunità, di ricreare spazi di libertà d’espressione il più possibile autonomi – guadagnare con lo slam o grazie alla popolarità che ne può derivare non solo si può, ma è dal mio punto di vista auspicabile. Il problema sta nel come.

Well, one and one is two

Six and two is eight

Come on baby don’t ya make me late

Hidehey

Baby don’t you wanna go

Back to that same old place

Sweet home Chicago

Les Blues Brothers Sweet home Chicago

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