Cheever’s
di Marco Candida

 

Secondo Stella la radio Cosebelle Chicago catturava le voci dei fantasmi. L’ha acquistata circa quattro o cinque giorni prima del mio compleanno in un mercatino vintage a Pavia – ci doveva essere una fiera; Stella ci è andata con Patti. Il giorno del mio compleanno me l’ha fatta trovare in casa, in sala, sulla mensola del caminetto e era già in funzione: trasmetteva un jazz piuttosto funebre di Dizzie Gillespie – che a quanto la voce dalla radio raccontava era un inedito. Eravamo appena tornati da una cena a ristorante dove io le avevo regalato un braccialetto. Stella aveva trovato la cosa assai originale – e divertente. “Sei l’unico uomo che conosco che mi abbia mai fatto un regalo nel giorno del suo compleanno” mi aveva detto. Ricordo d’averle risposto che farle regali mi procurava felicità, ecco tutto, e a fine cena le ho anche pagato il conto. A casa ho trovato la sorpresa. Stella mi ha spiegato di avermi fatto la Cosebelle Chicago dopo che qualche giorno prima le avevo parlato a lungo di una storia di John Cheever che si chiama The enormous radio. A volte commetto la leggerezza di intrattenere le donne con cui mi vedo raccontando le storie che trovo nei romanzi che leggo come passatempo. L’ho fatto con Caterina. L’ho fatto con Angela. L’ho sempre fatto. M’ero ripromesso di starci più attento con Stella (specialmente dopo quello che è successo con Angela) ma a volte ci ricasco. Dovrei smetterla di far acquisti su Internet, leggermi Cheever, Barth, Anderwood, la Whelthy, e invece piazzare un novantanove pollici davanti al matrimoniale king size e guardarmi con Stella un Herzog, un Kurosawa, un Fellini, se proprio voglio darmi questo flavour da intellettuale. Visto che ho usato tutte queste parole inglesi devo spiegarmi subito dicendo che questi libri che mi compro con la carta di credito attraverso Internet io li leggo in inglese. È per questo che a volte mi succede di mescolare le parole italiane e inglesi quando racconto delle faccende che ho letto nei libri di Margie Piercy o William Makepeace Thackeray e ricordo che a Caterina, ma specialmente ad Angela, il mio modo di raccontare non piaceva, anche  perché Angela aveva una questione irrisolta con l’inglese, non le si sarebbe appiccicato al cervello nemmeno col Bostick – come spesso mi ripeteva. Io nella vita faccio tutt’altro dalla letteratura. Lavoro in uno studio legale di un’azienda che produce cartone ondulato. Passo il tempo a fare contratti e a studiare pratiche relative a liti giudiziarie (ci vado piano col gergo d’avvocato più o meno per le stesse ragioni per cui ho imparato a usare con cautela le lingue straniere) e ancora oggi dopo dieci anni di studio tra università e esame d’avvocato e altri sette anni tra apprendistato e il mio lavoro d’ufficio (mi sono laureato a ventisei anni, a ventinove sono diventato avvocato e a trentuno ho trovato il posto nell’azienda che produce cartone ondulato: oggi ho trentasette anni e non mi sono più schiodato da quella seggiola in ufficio, anche se non mi dispiacerebbe aprirmi uno studio tutto mio) ebbene forse non mi fa onore dirlo ma trovo il diritto una materia aridissima. Ho sempre più bisogno di vedere davanti ai miei occhi lettere dell’alfabeto combinarsi in modo da farmi pensare a colori, immagini, dialoghi, azioni e non soltanto a stanze d’ufficio con i neon e le mura grigie piene di carte e scartofie che rinviano ad altri uffici con i neon e le mura grigie piene di carte e scartofie e che fanno pensare a luoghi e oggetti non molto diversi da uffici, neon, mura grigie, carte e scartofie. Così romanzi. Così romanzi che mi schiaffino oltreoceano lontano dalla quotidianità soffocante che respiro a Tortona, Voghera, Alessandria, al massimo Torino, che certo non sono Las Vegas, Los Angeles, San Francisco o Seattle. Altri miei colleghi si improvvisano curatori di mostre. Si buttano nel campo della fotografia. Sanno tutto dei giocattoli che comprano ai loro figli. Io invece per adesso mi limito a leggere libri di finzione in una lingua diversa – non sia mai che mentre leggo un qualche autore italiano ritrovi nelle sue parole espressioni che mi ricordano qualcuno degli italiani che sono costretto gioco forza a frequentare ogni giorno in ufficio… E insomma, per farla breve, leggo, racconto le storie che leggo, mescolo le parole che leggo alle parole che ho abitualmente nella testa e a quanto pare c’è proprio chi prende appunti mentre chiacchiero di queste faccende inventate come il caso di Stella sta a dimostrare con la sua Cosebelle Chicago – la chiamiamo così  perché è un nome che ci è entrato subito nel cuore – acquistata da lei dopo avermi sentito chiacchierare attorno al racconto di John Cheever The Enormous Radio. Quando m’ha fatto il regalo Stella mi ha anche mostrato come fare per catturare la voce dei fantasmi. È stato esilarante. Mi ha spiegato che bisogna puntare la radio nella zona di casa dove si pensa possa essere più forte la presenza degli spiriti e poi girare la manopola fino a che l’antenna non cattura le microparticelle invisibili di cui i fantasmi sono fatti, li risucchia nel ventre di cavi e transitor della radio e permette ai fantasmi di comunicare attraverso i microfoni. Io me la ridevo, mentre Stella nella sua pantomima mi sgambettava per casa con la radio in mano. “Chissà se con i fantasmi le AM funziano meglio che le FM” ironizzavo. Poi dopo che Stella ha rimesso la Cosebelle Chicago a suo posto sulla mensola del camino e l’ha spenta, ci siamo sistemati sul divano in sala per vedere quanto avremmo resistito con i vestiti addosso ma a me è preso di dirle che in realtà nella storia di John Cheever la radio non cattura proprio la voce dei fantasmi. Un secondo dopo averle detto questo sapevo che non soltanto mi sarei dovuto tenere i vestiti addosso per il resto della serata, ma che avrei anche fatto bene, per quel che sarebbe ora importato a Stella, di infilarmi guanti e cappotto e di non dimenticare anche sciarpa e cappello prima di coricarmi a letto accanto a lei. Comunque, Stella mi ha esortato a spiegarmi meglio. Io allora ho cominciato a raccontarle daccapo la storia di The enourmous radio. I protagonisti del racconto di John Cheever Jim e Irene Westcott abitano al dodicesimo piano di un condominio in Sutton Place. Sono genitori di due bambini, vanno a teatro una media di dieci virgola tre volte all’anno e sperano un giorno di trasferirsi a Westchester dove evidentemente si vive meglio. Jim e Irene hanno vite ordinarie e in fondo da John Cheever non ci si può aspettare niente di diverso dato che ha passato un bel po’ di tempo della sua vita ad alzare il gomito col collega e amico Raymond Carver all’University of Iowa City a Iowa City, Iowa. Ad ogni modo nelle vite ordinarie di Jim e Irene un giorno arriva in casa la enormous radio. È una radio che si presenta agli occhi di Irene come  una ugly gunwood cabinet, uneasy e aggressive, di un malevolent light green (l’ho detto che avrei usato parole inglesi) e una mattina mentre sta trasmettendo un pezzo di Mozart comincia un’interferenza e in sottofondo si iniziano a sentire campanelli di porte d’appartamento, trilli di campane d’ascensore, il rumore dell’aspirapolvere, lo squillo dei telefoni. Sicché Jim e Irene decidono di prendere la radio e farla aggiustare da qualcuno, ma al suo ritorno di nuovo ricominciano le interferenze. Dopo un poco (il racconto non è lungo) la coppia di coniugi si rende conto che le voci che sentono alla radio sono quelle dei loro vicini d’appartamento. La radio cattura la voce della governante degli Sweeney’s mentre sta recitando una filastrocca ai bambini. Poi si sintonizza all’undicesimo piano interno E dove la famiglia Fullers sta dando un cocktail party. Poi Jim e Irene trovano il modo di sintonizzarsi al 18-C e insomma per farla breve e arrivare presto al punto, ho spiegato a Stella, la radio di Jim e Irene Westcott non cattura la voce dei fantasmi, ma quelli dei loro vicini di casa. Ho aggiunto, con un po’ di saccenteria, che il racconto si risolve in una sorta di critica a un modello di società da Big-Brother e che questa è una conclusione per i miei gusti ormai un po’ banalotta. Se infatti all’inizio Jim e Irene sono eccitati dall’idea di apprendere i segreti dei loro vicini di casa (Stella mi ha ricordato che questa idea è simile a quel best seller di Ira Levin da cui è stato tratto un film con Sharone Stone solo che lí al posto della radio magica ci sono telecamere nascoste nelle stanze di ogni appartamento di un megacondominio) dopo un poco Irene resta sconvolta da questa possibilità. Non sopporta di sapere ad esempio che al 16-C Mr Obson stia per picchiare sua moglie e spinge Jim a chiamare gli sbirri, a intervenire, a far qualcosa, accidenti. La madre degli Hutchinson sta morendo di cancro in Florida, Mrs. Hendricks a problemi cardiaci, Mr Hendricks ad aprile perderà il posto di lavoro e l’uomo che ripara gli ascensori ha la tubercolosi. Irene sta male sapendo delle disgrazie dei suoi vicini di casa e non vorrebbe sapere niente e Jim la rimprovera e alla fine tra loro scoppia anche un diverbio sul fatto che lui le aveva regalato la radio  perché le procurasse svago e non disagio e che se era così allora non avrebbe più dovuto ascoltarla quella dannata radio. La storia si conclude con Irene che si avvicina alla radio, allunga la mano alla manopola per cercare di sintonizzarsi su stazioni diverse e migliori e invece capita su un notiziario dove si annuncia che a Tokio un disastro ferroviario ha ammazzato ventinove persone, un incendio in un ospedale cattolico che si occupa di bambini non vedenti vicino a Buffalo è stato miracolosamente spento dalle suore che ci lavorano e insomma si suggerisce forse che è dopotutto quello strumento in se stesso, la radio, che altro non passa se non cattive notizie siano esse sottocasa o a migliaia di chilometri di distanza e questo, ho concluso cercando di stemperare la saccenteria dimostrata poco prima, è un finale che tutto sommato serve ancora a farci riflettere. Ho aggiunto che le interpretazioni possibili delle poche pagine del racconto di Cheever sono numerose: ad esempio come il pomo nel giardino dell’Eden rappresenta la perdita dell’innocenza da parte di Adamo ed Eva la radio in casa Westcott rappresenta la perdita dell’innocenza di Jim e Irene riguardo la loro condizione di esponenti della dorata classe media americana. Lo stile di vita borghese americano non riesce a escludere il male fuori dalla porta di casa e dal proprio privato. Tuttavia ho spiegato a Stella che il racconto datato 1953 potrebbe forse alludere in qualche modo proprio allo stereotipo (che giusto in quegli anni circolava) riguardo radio in grado di catturare voci degli spiriti dell’al di là se non degli alieni e che se così stanno le cose questa lettura potrebbe dopotutto autorizzare a pensare che siano i vicini di casa dei Westcott a essere i fantasmi e gli alieni. In altre parole gli esponenti della classe media americana che abitano il condominio con le loro vite  regolari e col loro preoccuparsi solo delle loro esistenze in relazione al denaro, a problemi prosaici, velleitari, ebbene, li rende già fantasmi e alieni ed è per questa ragione che la radio misteriosa che entra in casa Westcott rileva le loro voci. Dopo la mia spiegazione Stella è scoppiata a ridere e mi ha chiesto se non pensavo che la Cose Belle Chicago, che adesso pareva osservarci silenziosamente dalla sua mensola, avrebbe potuto captare le voci dei Morini del terzo piano o dei Tarchetti al sesto o dei Gassoni al quarto. In fondo, ha chiosato Stella, i Morini, i Tarchetti, i Gassoni li sembravano per davvero un po’ fantasmi. “Come fai a dire questo?”. “Da quando ti frequento li ho osservati bene” “Davvero? Non l’avevo notato…” le detto io e ricordo d’aver allungato una mano verso i suoi vestiti ma che lei con un gesto l’ha subito ricacciata a suo posto. “Li ho osservati, sí…”. “Sí, ma io non abito certo in un condominio della middle-class americana e nemmeno italiana – faccio io – Questo posto è una baracca. E poi come si fa a paragonare gli americani di quel racconto agli italiani di oggi? Quello era un racconto del ’53 e ambientato negli Stati Uniti. Oggi in Italia non c’è un lavoro sicuro, non ci sono soldi, non c’è futuro, per me anche le classi sociali ormai sono saltate…”. “Appunto, e i Morini, i Tarchetti, i Gassoni ne sono precisamente l’esempio”. Mentre Stella parlava io pensavo al mio senso di colpa per riuscire a portare a casa soltanto uno stipendio sui mille e trecento euro al mese dopo anni e anni d’ufficio e nonostante i miei titoli di studio. Pensavo che se fossi stato migliore in ufficio adesso guadagnerei più soldi e non vivrei in un condominio d’anziani che hanno a carico figli fannulloni o sfortunati che non riescono a trovare nemmeno di che campare. Come ad esempio Arturo Morini, che a trentadue anni lavora ancora con contratti a tempo determinato presso ditte di Avolasca, Voghera, Stradella: una volta ceramiche, una volta conglomerato bituminoso, una volta amidi modificati… S’improvvisa per tre, sei, dodici mesi qualsiasi cosa con la sua laurea specialistica in Scienze Politiche. Quando non resta senza lavoro va all’estero: Toronto, New York… I suoi genitori in ascensore spesso alludono a certi amici che Arturo avrebbe all’estero e che a volte l’ospitano anche per due o tre mesi. Anche Giovanni Tarchetti, pensavo mentre Stella in pratica esprimeva a voce quello che io andavo pensando, con la sua laurea in Chimica Farmaceutica a trentasei anni non riusciva a quanto pareva a trovare un posto di lavoro fisso, ma portava avanti un dottorato da diversi anni ormai, faceva consulenze presso aziende come esterno e i suoi genitori mi impressionavano in ascensore raccontandomi di conferenze che teneva all’estero (specialmente Germania) e articoli per riviste specialistiche a quanto pare molto prestigiose. Zeno Gassoni, invece, seguitavo a pensare quella sera, aveva una laurea specialistica in Lettere e anche lui non riusciva a trovare un lavoro pagato, solo un mucchio di lavoretti, una volta a Ascoli, un’altra a Catanzaro, un’altra a Avellino, un’altra a Canicattí (be’, adesso sto inventando, ma su Ascoli e Catanzaro sono sicuro) e poi anche lui viaggi all’estero, specialmente Francia e Spagna. “Capisci che Morini, Gassoni, Tarchetti futuro non ne hanno, quanto potranno andare avanti così? Cosa succede se si ammalano? Come si curano? Hai visto che neo ha sulla faccia Tarchetti? E Gassoni hai visto che alopecia che gli ha preso? E quell’altro… Lambertini…  perché c’è anche Lambertini, e Peridretti, e Filippini, e Rombinetti…” e intanto io pensavo a me che mi sono laureato a ventisei anni, a ventinove sono diventato avvocato e a trentuno ho trovato il posto nell’azienda che produce cartone ondulato e oggi ho trentasette anni e non mi sono più schiodato da quella seggiola in ufficio, anche se non mi dispiacerebbe aprirmi uno studio tutto mio e mi occupo soprattuto di recupero crediti chiuso in uno studio legale e pensavo a Morini a Toronto e a New York e a Tarchetti a Berlino e Monaco di Baviera e a Gassoni che volava a Parigi, Marsilia, a Barcellona, a Madrid e d’improvviso c’è stata un’esplosione proveniente dalla mensola sul camino e Stella ha smesso di mandare parole a raffica su Gassoni, Morini, Tarchetti, Lambertini, Filippini, Peridretti, Rombinetti e abbiamo voltato entrambi la testa verso la mensola dove ora la Cose Belle Chicago s’era accesa e s’era messa a trasmettere. Io ho detto: “Che succede?” e ho subito sentito una sorta di eco provenire dalla radio. “La radio si è accesa da sola…” ha detto Stella e anche questa volta s’è prodotta una sorta di eco. “Hai visto come è esplosa quasi?” e di nuovo s’è formata quella eco. “Ma questa eco non la senti anche tu?” ho allora detto io mentre si produceva ancora un’altra eco. Abbiamo fatto silenzio. Anche la radio ha fatto silenzio. Mi sono avvicinato alla radio. Anche Stella s’è alzata. S’è avvicinata. La radio era in silenzio. Si sentivano solo fruscii leggeri in sottofondo. Ho detto qualche parola. La radio le ha ritrasmesse fuori simultaneamente. Ho allungato la mano verso la manopola, ho cambiato stazione. Non è servito. La radio trasmetteva ancora le nostre voci su qualsiasi frequenza. Mi sono voltato verso Stella e ripensando in un lampo al racconto di John Cheever e a tutto quello che avevamo appena detto a riguardo le ho chiesto: “E questo che cosa accidenti significa?”.