Dormi ancora
di Elena Mearini

Assunta voleva che l’orizzonte cadesse sulle ginocchia, si aspettava la genuflessione del cielo in risposta alla supplica del suo sguardo. Lei se ne stava lì, tra i covoni di grano, nel cartoccio di una solitudine cacciata dentro il forno delle ore. L’assenza le cuoceva addosso, mentre gli occhi restavano crudi, fuggiti di padella e senno. Una visione al carpaccio, servita fredda alle stelle.

Si toccava la pancia, con le dita correva attorno alla cupola che spuntava da sotto la pelle.Erano passati otto mesi ormai. Già si sentiva il calcio nel ventre, lo spillo di un calcagno pronto a imbastirsi la vita. Da lì a poco sarebbe arrivato il graffio sonoro, l’unghiata acustica del primo pianto.

Assunta stringe il pugno, lo appoggia in mezzo alle gambe. Batte il ritmo di un singhiozzo, l’anticipo di uno strillo che già stiracchia le corde vocali e si prepara alla sveglia.

Dormi ancora, ti attacco il sonno alla prolunga e lo collego alla centrale elettrica della luna. Tu non puoi vederla, ma questa notte lei è alta, tutta tonda come la pancia che mi hai fatto crescere. Abbiamo abbastanza corrente da tirare alla lunga i sogni, spegni la premura di aprire gli occhi. Risparmia l’energia per fare luce dove stanno i morti, o quelli uguali a te che ancora non sono nati. Se ti butti al mondo carichi il mio tuffo di troppo peso e mi costringi a pestare le speranze sulla pietra aguzza del fondale. A che ti serve una madre con la fronte bucata e la tempia guasta, che poi il pensiero sgocciola fuori e la mia zucca resta vuota.Una bolla bianca attaccata al collo, aria e sapone da soffiare lontano. A colpi di fiato dovresti spingermi accanto ai fornelli, chiedermi di scaldarti il latte nel pentolino, quando la mia mammella andrà in bancarotta. Ho poche monete dentro il petto, la carestia mi minaccia il cuore. Su mio padre non posso contare. Gli ho detto di te e lui si è piegato a sistemare la mangiatoia delle bestie. Paglia e fieno tra le mani, ha dato fuoco al silenzio. Sulla faccia una combustione di smorfie e in bocca la fiamma di un Vattene da qui. Non ti stupire, tuo nonno è uno consacrato al badile, abituato a dedicare carezze al bastone di una vanga, a sciogliere baci nel sudore e poi versarli sopra i campi. Così può irrigare l’orto, condire i pomodori e l’insalata con l’unica specie d’more che gli bagna la fronte e gli inzuppa le ascelle.

Sono l’ultima di otto sorelle, la figlia di coda, quella che si rizza soltanto per marcare il suolo con la frignata dell’intestino, il lamento sozzo della pancia. Puzzo di scarto, papà non me lo caccia il naso dentro al cuore. Lo vedi che non vale la pena uscire da quel manicotto di cielo che ti scalda la notte? Strofinati le mani contro la lana nera che mi pizzica la pancia, infiammati i palmi con i riccioli di pecore tosate e sogni caduti, bruciati i pugni e pesta il gelo di questo inverno. Se credi che nascere sia un’estate, allora ti sbagli.

Suor Vittoria mi ha sentita, mentre ti tenevo in bocca, lì davanti al nonno. E sbriciolavo tra le labbra tutta la paura del tuo arrivo. Ha visto che lui non ha esitato a cacciarmi, ha visto la forca della sua indifferenza infilzarmi le suppliche e ridurre a colabrodo la mia preghiera. Vuole che io la segua in convento, mi ritiri al lavoro forzato di tre messe e sei orazioni al giorno. Così levo mio padre dall’imbroglio del disonore e riservo a me stessa l’inganno di anima pia e fedele. Tu finiresti come un boccone in gola all’affamato, trangugiato a furia da abbracci sconosciuti, fatto a pezzi contro un seno che magari ti metterà anche caviale dentro il latte, ma senza chiederti mai se a te piace il suo sapore. Dormi ancora, dammi retta. Che io non mi lascerò battere i denti dallo scalpello dei salmi, per versarmi poi pastina e brodo sulle gengive nude. E con la bocca metà vecchia e metà poppante, succhiare i resti di Dio dalla cera di candele spente.

Chiudi forte quegli occhi, vedrai le note di una canzone. E il buio canterà per te.

Assunta è distesa ora, il suo corpo è un balenottero spiaggiato nel grano. Sfiata memoria d’abisso, spruzza al cielo il principio e la fine del mare. Tra le cosce, il fragore dell’ultima onda. Silenzio. E poi il chiasso del primo pianto.

Fu Suor Vittoria a trovarla, quella donna infagottata di favola e disgrazia, avvolta nel piumone di una speranza che ormai perdeva piume da tutte le parti. Assunta partorì sola, nello sbrego di un urlo che risucchiò il sole dentro la sua pancia di luna piena. La campagna bergamasca cacciava ululati di lupa alla vita, mentre gli anni ’50 facevano branco attorno al fuoco acceso del rock’n roll.