Dalla centrifuga, il mondo di fuori 2/2
di Tommaso Ottonieri

Levato cosa dal mucchio umido dei teli, aggrappando l’equilibrio che si rompe, a farsi largo fra gli scoppi invisibili delle mattonelle sfessurate, tenta non riappiattirsi il corpo vuole gonfiare ritrovare peso a penetrare il mondo di traverso. Corpo di panno di marzapane, il foro espande dalla mandorla strabica degli occhi, all’orologio battono le dodici, si flettono le gambe a trovare uno spessore, provano a sfondare la parete stellata per ingoiarsi fuori, nella volta del mondo fuori di sé.

Sono l’omino che luccica di bave prima d’esser pressato dal rotolo assorbente, il bianco un involto di fosfati scivolati nello scarico un deflusso di sangui e candeggina e di calcari, il risciacquo forzato, fumo che emana dal cuore di centrifuga, la palla di filo il cordone che continua a sanguinare quando strappa il cestello, l’impasto che raggiunge la sua crosta. Fuori del lavaggio, quando sei rovesciato lì non puoi far altro che correre non appena tirato dal cestello, correre attraverso i fienili e per i campi, con andatura obliqua per non lasciarsi travolgere dall’erba alta che coprirebbe di segni, e dalla cima del granturco i salti per schivare la tagliola dei morsi la morsa a labbra strette della terra i tagliaerbe a scoppio, rincorso dalla falce delle madri dall’acqua delle madri a pioggia dalle borse dei pellicani.

Per campi e boscaglie correre e per paludi sfiorando il suolo cosparso di relitti, e un cielo gira piatto sul fluttuare delle ascisse coagula sul precipizio delle origini, e dalla trebbiatrice immense rotolano balle di fieno e sul proiettile che orizzontale vaga abbandonato il suo bersaglio girano a vuoto lamine su lamine di parametri scaduti, nel momento del correre, prima che sia asciutto, di carcasse di autotreni rovesciati su bordi d’autostrada. Prima che il corpo di panno si sciolga e accenda al sole di un deserto per l’istante senza peso dell’autocombustione. A forare il fondo del cosmo dietro il riflesso oscillante dei palazzi.

Questa gelatina che già teneva rigido, assorbe il peso dell’aria, le masse opache delle divinazioni, la gravità del levitare l’ombra lacera del soma, un trasparente impresso di raggi scopre lo sfaldarsi delle cartilagini quando il vento corre sfessurando dai margini e di quel soffio riavvolge, come tutto rasoterra vola e dal dente di corno sfilato dall’asola stai mordendo il vuoto, quello che t’ingoia il nulla che affastella squame di memo inumiditi lungo i bordi, li accartoccia nel moto del ruotare, e nel balenìo d’un miraggio li sospende, sopra il mulinare inverso della tua vertigine.

Dietro le spalle la spirale non smette di spingere groppi fuori dal cestello, un effetto 3D da un padiglione di fiera, un sacco di membrane si vomita sul pvc e tutto quel che è espulso incomincia a squittire, ed è un popolo dentato ancora a quattro zampe che s’è sparso, adesso, sull’accelerarsi progressivo del globo sotto di sé, sul reticolo di rapide sul fluido della terra, la terra che galleggia; e corro.

Via da alberi e case a grappoli e campi trebbiati e dai parcheggi antistanti le centrali del latte, privatizzate o dismesse, via dal muggito dei mattatoi, dalle ottimistiche insegne dei suinifici, dall’odore, dalle corsie d’emergenza intasate dei raccordi. Volano corpi indietro, a giravolte lente come se morti nella massa liquida oppure astronauti staccati nello spazio senza respiratore, corridoi d’aria a raggiera s’aprono l’uno a cavallo dell’altro spampanati da quel correre; e corro, fino alla fine del peso, lungo un ciglio d’autostrada, allo sciogliersi nel fiato acquattato delle volpi.

Posso correre via, alla fine della terra, ma tutto quello che è in terra, è destinato a restare.

Si stinge il corpo grammo dopo grammo per sparire tutto, si estingue il colore, il calore, il peso, ogni patina resta, di quello che è fuori. Soltanto patina, mezzo assorbita a fiore della sabbia.

Non voglio seminare deserto; e non posso che sciogliere. Che allargare qui adesso la sottigliezza del mio velo. Nodi e liquidi nella furia d’un silenzio senza culti. Non voglio che urli per nessun altro che per me la sirena del mondo, che per nessuno se non me serpeggino le vibrisse della Gorgone, quando i volti a uno a uno svaniscono sullo sfinito spegnersi degli occhi. Non voglio che altri fissino lo sguardo di medusa, mi basta questo battito di ciglia a sgretolare nella sabbia il mondo fuori che mi resta mentre svanisco. Non voglio seminare questo deserto, non voglio che il deserto sottopelle si liberi. Guardami.

Sciolto dal mondo: guarda. Il palpito attonito di quello che scompare, tirato via dal plesso solare, come trascina a sgrano d’occhi nella rena. Qui non resta che il vibrato della voce che s’incaglia, squame a staccarsi dal riverbero del suono. Un turbo che ringoia dalle viscere del mondo, questo fiato caldo è vortice. Non voglio aver seminato deserto, non voglio sciogliere le dita dai capelli. Il mondo fuori sono cose che scivolano senza aver il tempo di adattarsi al tuo sparire. Sono cose che urlano nel loro indietreggiare, disperate si sgolano del procedere della distanza. Solo la voce, mi resta del corpo, la voce sola nella tempesta dei granelli. Copre la cenere lasciata dalle cose. Labbra socchiuse a pelo della coltre. Nel silenzio il deserto intorno fruscia un indistinto di formule, fitte sillabe a rinchiudersi. Nel deserto, dalle palpebre asciutte le lingue spegnendosi perforano, da sotto, questo manto di sabbia, e lui tenue ribolle con occhi di farfalla, come il dorso variopinto di un drago sperduto nel risucchio delle storie.

“And at last,

‘I’m all gone!’ ,

and never spoke again” :

da “Il Reportage” n.2, aprile 2010