Fuga senza fine /4
di Tommaso Ottonieri

4.

Seguendo il suo spettro, trasparenza di teschio, a capofitto nel condotto di cemento che si protende fin qui, per trovarne qualunque sia un’uscita. Scavano, le unghie, fra i detriti, fra i residui di quello che è spezzato, sfilacciature tirate dai cassetti e scivolate laggiù lungo le pareti curve, tagliente ai bordi una durezza di schegge. E gli aculei dell’istrice, a vortice nella turbina si conficcano negli occhi, mentre scavi cercando la luce, guidata dal vento, dal soffio di spettro che a sé trascina, cristallo di rocca, l’imbuto teso del teschio.

E sola forza resta la mutezza; non lasciare che qualcuno avverta gli spasimi, all’ingresso del condotto, la bocca sdrucciolevole da cui è impossibile non essere aspirati; come se davvero fosse possibile farsi assorbire dal deserto, alla fine del condotto, avvolta nel cotone strappato e nelle spine che ne rivestono le pareti, e solcato il collo da vapori d’acido e atomi di cenere grondanti dalle tempie. Come se allo sbocco di tutto non fosse quella sabbia urticante, fumo dalle crepe delle zolle fra cui aggirarsi assieme ai dissepolti, il fiato del tuo spettro che prova a farsi corpo. Dentro il tuo corpo. E forme di vita impreviste, da ogni cavità sorgendo a dissanguare.

Non guardarsi indietro mai più, non pensare che prima fosse il mondo. Il mondo che àncora al suo paesaggio filiforme d’oggetti che ne emergono a dissolvere; le cose ovunque soffiate via dal mondo, questa tormenta che resta, che le spinge, e fatte polvere da ogni spiraglio a invadere. Lui stesso, rimasto fuori all’ingresso del cunicolo, la polvere del mondo che gli soffia, la carne che si sgrana controvento, il mondo che deforma e inghiotte i nostri liquidi. Quando sulla pelle e gli occhi l’uno sopra l’altro gli s’incollano i pezzi staccati, quando li stacca dagli occhi per odorare l’oceano di petrolio adesso, la marea salita alle ginocchia nel magnete dei noviluni, lievito di polvere, nell’incendio fuori dell’ingresso del condotto.

E ogni sillaba spezzata nel vuoto d’aria lì fuori, quello che succhia il respiro, ogni sillaba è una scheggia di vetro, un coltello affilato che ti penetra.

Lui non può che aggrapparsi allora alla memoria ghiacciata di una stanza. Di quella stanza, affondata tra pianure, e paludi; ai muri scivolanti ingiù, al corridoio dopo l’ascensore alla moquette in ordine, alla trina scura che ricopre agli strati che assottigliano a ogni respiro, alla soglia dove ancora non dirsi, non mai dirsi. Non può che aggrapparsi alla colla della lingua per discendere, allo slacciarsi denso della stretta, al senso della nuca, le labbra a tuffo a scendere dal collo, la carne tesa dall’inguine: che rivenire al cedere di colla, alle bollicine dentro che riscoppiano, allo sciogliersi alla fine dei respiri.

Tenersi stretto all’aprirsi, come quinte, dei muri, a quel solo vibrare d’attimo. Giusto qui, alla fine di tutto. Che è ovunque, che è mai. Qui dov’è atterrato e affonda, qui nella vallata degli spiriti che strillano vampiri, nel bruciare aspro della terra. Qui a scrutare la linea dell’orizzonte dietro il mare di sabbia, un vapore che si anima.

E non potremo vivere che in fondo a quel miraggio.

A cavallo di giraffe dagli strani colori, briglie i loro stessi ultrasuoni.

Liberando palloncini di smog, uno dopo l’altro.

Verso un cielo trasparente di nafta, che è qui stampato per schiacciare.