Fuga senza fine /3
di Tommaso Ottonieri

3.

In cecità un gigante ruota su stesso, al cielo tende l’elastico di braccia, per tirare giù la luna dal ghiaccio, scaglia il suo riflesso sulla benzina spenta del mare; e scruta il suo buio.

Sotto il Natale, sotto la schiena in sussulto del Natale, tante e tante volte sei venuto e stretto tra le labbra per espellere. La densità dell’assillo, del succo. Ingoiando la durezza di altro seme, figurando lo spessore quando l’amaro scivola. E tra i denti che ne resta, scuro, la grevità del senso, come un profumo di midollo sceso nell’esofago; per le cavità spugnose ad allargarsi in alcun dove.

Sotto il rullo compressore del Natale, sottovento al ronzio dei generatori, gli angeli sospesi a un filo crepitano a rilasciare la trivella piccola del suono, lo scroscio muto del seme, come a strappi il sibilo d’una sfinita annunciazione. Dall’alto senza cielo tùrbina uno svanire di attrazioni, spiriti esalanti dai cocktails, stretti nel giro degli angeli impiccati; sono le sfere rivestite di specchietti gli angeli in gravità, e volute argentate slabbrandosi dai tubi, e sghembe le lampade nerofumo degli spot: cavi troncati, penduli, spirali d’aeratori che si staccano, questa coda di stella scagliata sul palco l’obliquo di freccia fitto a incastrarsi verso una tappezzeria di abbandoni, fulmine cavo: si scaglia dal venire fuori squadro del suono, alla conca del palco fatto vuoto, una cassa di risonanza, che restringe.

Così che i piatti rallentati girano, onda su onda nella gelatina del riverbero; che piano la console dai solchi spinge questo filo invisibile di luce, un attacco di dischi volanti che implodessero da una galleria di buchi neri senza uscita di sicurezza, da uno schiacciarsi di galassie nello spegnersi senza fine dei futuri.

Dal fondo appena schiuso della cecità; ruotando. E ancora scorge, tra l’elettrico dei capelli oscillanti come fili stipatissimi di malto, che si slanciassero dalla piattezza d’una zolla da un terreno un campo esposto ad ogni vento, lui che d’improvviso scorge. Staccarsi dentro l’onda alcolica, lo smalto degli occhi: di lei: spirali scure che si schiarano nel viola della luce, come in 3d protese iridi di gatta; e vibrano di prolungamenti. Dall’asma, vibrano, larga, del suono: che si espandono, quegli occhi, dentro il senso acre dei distillati verso quel cielo. Strato su strato, oltre il diamante stridere del malto sul cristallo: il cristallo delle vene, a spezzarlo.

Per il diaframma che sempre più si schiude, per il foro scavato nella cecità, come un gigante che si spezza senza luna, in un fondale acceso una benzina di ghiaccio; e che scorge, adesso, quegli occhi, che girano a mille. Occhi di lei, dal fitto d’una foresta moscia di membri da rizzare e ancora: spirali d’occhi che tutto afferrano, attirano nelle labbra delle ciglia, in fondo al magnete a sé staccato del guardare.

Uno per uno, tastandoli, come frutti penduli da cavarne succo. Può saggiarli, di sotto in sopra, dalla base alla punta, umida lingua che le gira dallo sguardo. I glandi eretti si stendono in tappeto di bosco, questo humus che sboccia; e su ciascuno, caritatevole, sdoppiandosi, lei che si piega: e comprime, la schiena i muscoli tesi della pancia, nello sflashare di strobo il miracolo d’una moltiplicazione di lei e l’infinità roteare santa dei suoi occhi: e rette ovunque dal basso s’elevano improvvise al risalire dei semi, mentre in cenere il suo sguardo s’è levato al cielo: e dalla gola, rotta nel respiro, prega. Spinto ultrasuono oltre la corte angelica, che lassù giace a gravitare nel suo tono.

Le cose che consumi lasciano residui, che sempre salgono lenti dalla vena, a sbocco d’extrasistole a spaccare, la giugulare, le tempie.

E sono, la vita che è lasciata defluire, nell’ologramma che ovunque a scatti si proietta. Null’altro, che l’ombra deforme qui staccata per salvarsi. Per mille forme, il mostro che prende corpo e ruota, soffice: il drago dentro che resta da fuggire, o da braccare.