Fuga senza fine /1
di Tommaso Ottonieri

1.

Senza lasciare ombra di goccia. Giù nel fitto del bosco. Dalla trapunta, rialzandosi, liscia, dalla boiserie stinta della camera dai suoi cablaggi d’aria dal lembo del parato, dal flusso caldo dal condizionatore, lei che risolleva il volto.

Sa di ciliegio. Il succo, il fiotto disceso. Di lui, come un legno nobile discioltosi strato su strato al contatto della lingua, un sovrapporsi di stagioni imprevedute, la durezza flessibile di quello che è lì per esser teso, per donare strisce di calore e espande e nutre.

Sa di làmina, una memoria di rame, giù dal collo a fiore dell’ascella, la vena che istoria diciture impalpabili nella cova dell’alba. Sul nervo teso all’ascella e marmorea la pelle che la cinge, una fissità animale si raccoglie prima dello scatto, del fiotto. E acqua sono, i suoi occhi, e girano, e ruote all’incontrario discese dagli spazi, mentre la bocca le dice.

Sai di ciliegio. Lo spessore delle stagioni che colano, quel che pulsa improvviso. Nella ventosa della gola che schiude. L’ultima goccia di quel legno liquido l’ultimo atomo di pioggia, scava sulle pareti d’una grotta ruvida, canale stretto prima d’entrare nei suoi giri, come su una corteccia che oliasse di mucosa, di spasmi. E la stanza che rigira all’ingoio, a loro intorno. E l’attimo è il perno, teso senza vite, l’attimo lanciato per dissolversi, stelle filanti questa tempesta impalpabile di grumi: e l’attimo. L’attimo senza volto, s’affaccia dalle pieghe del parato, sflasha invisibile, luce inchiodata per restare.

Lei, alza lo sguardo allora. Nella memoria sfinita dei ciliegi. Le pareti s’allargano scoscese, una gravità che ingoia laterale, questo gorgo d’azzurro per soffocare della sua salvazione senza uscita. E nel riflusso degli spiriti, più interno nei circuiti il defluire scuro degli spermi e nella grandine di sillabe inaudite, più soffice la pronunzia ha inciso come un ago, traforandosi dal collo, e si rèplica.